giovedì 17 febbraio 2011

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Sabato, 19 febbraio 2011

lunedì 14 febbraio 2011

Narrazioni e piazza. Come da anni si rinuncia a fare politica

Riflessioni a margini della manifestazione del 13 febbraio


È successo che a un certo punto, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, la comunicazione ha subito uno stop nella capacità di raggiungere le persone.
Nella mia memoria di bambino ci sono immagini di altri bimbi, neri, con la pancia gonfia e mosconi ronzanti attorno, che supplicano pietà.
Ci si accorse allora che spingere l'acceleratore sullo shock emotivo, in breve, provocava assuefazione e indifferenza nella gente. Erano gli anni in cui la società dello spettacolo si trasformava sempre più velocemente in società dell'informazione. Con l'arrivo di internet la pressione verso l'invasione totale dell'informazione nella quotidianità trovava finalmente la piattaforma ideale.

Il sovraccarico di informazione stordisce, la spinta verso l'empatia tramite utilizzo di immagini forti anestetizza.
È allora probabilmente in quella silenziosa transizione tra la metà degli anni Novanta e la metà dei Duemila che avviene il passaggio verso la narrazione come strumento pubblico di comunicazione.
Il modo migliore, l'unico efficace, per catturare l'attenzione delle persone è raccontargli una storia, fargliela vivere, come in una sorta di realtà virtuale ante litteram. E come fare?
I giornali puntano sulla cosiddetta tematizzazione: di un fatto non va narrato solo l'aspetto principale, ma tutto quello che gli ruota attorno, retroscena e aspetti privati inclusi. Gli articoli di “colore” che accompagnano le vicende politiche acquistano sempre più importanza a scapito della cronaca.
La pubblicità comincia a raccontare storie che nulla hanno a che vedere con le qualità del prodotto venduto, ma che puntano a generare in chi guarda un sentimento di identificazione e benessere.
Nella vita privata, la tematizzazione si incrocia con la spinta a trasformare i momenti più significativi del proprio vissuto in veri e propri eventi. Non c'è più un diciottesimo compleanno senza che parta il video riassuntivo della comune esperienza dedicato al festeggiato, stile clip Grande Fratello. Dei matrimoni ormai si registra e monta come un documentario anche il “making of”, i giorni di avvicinamento allo sposalizio, e così via.
Neanche la politica è immune a tutto questo. Una prova l'abbiamo avuta durante la manifestazione per le donne del 13 febbraio, utile e grandiosa per altri aspetti.
Sul palco vedo avvicendarsi una serie di donne che raccontano la questione della discriminazione di genere caratterizzandola con la propria esperienza. C'è la femminista d'antan, l'immigrata, l'attrice impegnata, la studentessa e anche l'uomo amico delle donne.
La complessità della questione, in perfetta linea con lo spirito del tempo, viene affidata alla tematizzazione, alla sovrapposizione di diversi punti di vista e soprattutto di diverse esperienze relativamente alla questione.
In realtà, si regalano al pubblico molteplici pezzetti della stessa superficie, senza mai approfondire il tema. Nulla si aggiunge alla generica richiesta di smetterla col maschilismo e all'urgenza di dire finalmente basta. Le organizzatrici della manifestazione e i relatori dal palco rinunciano alla possibilità di rivendicare qualcosa di concreto, di fare richieste, di porsi obbiettivi a breve scadenza, seppur grezzi e generici.
Il passo avanti rispetto a una prima fase di analisi (che in realtà non si può nemmeno chiamare analisi, ma esposizione esperienziale del problema) lascia il posto all'imperativo catartico. “Adesso facciamo un minuto di silenzio, poi io vi chiederò 'se non ora quando?' e voi risponderete con le mani alzate 'adesso'”. La necessità di agire, l'indicazione di una o più possibili direzioni su cui concentrare la propria voglia di partecipare (quote rosa nei Cda delle aziende, tra le candidature parlamentari? Leggi più adeguate per maternità e paternità?) viene sostituita dal simulacro dell'azione, il flash mob.
Si torna a casa con un appagamento a cui segue un indistinto senso di vuoto. Cosa abbiamo veramente fatto, oltre rivendicare una legittima parità di diritti tra uomo e donna?
Questo poco importa ai più. L'importante è essersi riconosciuti nella storia narrata in quella piazza e nelle ore successive nei giornali e nei siti internet sponsor dell'evento.
L'indignazione scatenata tramite l'induzione all'empatia fa venire in mente la scena finale del film Quinto potere di Sidney Lumet. Un presentatore televisivo indignato spinge il pubblico, dopo un'appassionata arringa, ad alzarsi in piedi e gridare: “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. Tutti si lasciano contagiare e gridano a squarciagola. C'è da scommetterci che in un'ipotetica scena successiva la cosa più rivoluzionaria che avrebbero fatto questi urlatori sarebbe stata ordinare una pizza al telefono, affamati dallo sforzo.
Questo perché, al contrario della retorica dei nostri giorni, le rivoluzioni non combaciano con il libero sfogo delle emozioni. Al contrario, perché la rabbia e l'indignazione si trasformino in reale spinta al cambiamento, le emozioni vanno imbrigliate, incanalate tramite la riflessione e la lucidità.
Senza queste, la rivoluzione francese o quella sovietica si sarebbero probabilmente risolte in devastazioni e saccheggi, così come alla liberazione dal nazifascismo sarebbe seguito un mero regolamento di conto con gli ex-oppressori. Il vecchio Monicelli, santificato dalle masse in agitazione di questi mesi, del resto, aveva detto nient'altro che questo: La speranza è una trappola, l'unica possibilità che abbiamo di cambiare le cose è essere disperati. Intendeva probabilmente non l'azione nichilista, senza uno scopo ultimo, ma l'azione che non è schiava delle facili emozioni, come appunto il sentimento di speranza che è così semplice a sgonfiarsi tanto quanto a gonfiarsi.

È forse possibile aggiungere un ulteriore tassello al depotenziamento che si autoimpone la politica della narrazione autoreferenziale.
Quando si punta tutto sulla capacità di sviluppare una storia credibile e coinvolgente, si chiede a chi ascolta non di capire né di discernere, ma di empatizzare ed emozionarsi. Gli si chiede di non annoiarsi. Ecco, io quando ho visto Il Padrino non mi sono annoiato, nemmeno quando ho visto Il Divo. Per questo mi sono piaciuti entrambi, ma non chiederei mai a nessun film di indicarmi una strada per migliorare la lotta contro la criminalità o la malapolitica. Il compito di un film o di un libro di narrativa è raccontarmi bene una storia.
Il compito della politica, anche nella forma delle manifestazione di piazza, è invece di aiutarmi ad intravedere una possibile via d'uscita dall'empasse in cui mi trovo, ci troviamo.  

martedì 8 febbraio 2011

Una lettera dalla Tunisia

Mi scrive Ahlam, una ragazza tunisina che ho incontrato a Tunisi questa estate. Ahlam mi concede queste poche righe post-rivoluzione. Sono le parole di speranza di chi è appena uscito da una dittatura lunga 23 anni.


"La mia vita è una vita in rosa, in tutti i sensi, perché io vivo in una società molto moderna, nonostante quel che significa essere musulmano. Noi giovani non abbiamo alcun limite, in tutti i settori. 

E' una bella prigione, comoda, lussuosa, colorata. Noi possiamo avere tutto, basta ignorare alcune cose, come la politica. 
La questione sta in una linea rossa da non superare. (C'è una frase usata spesso: anche le orecchie sono mature ...) E tutto questo in una società governata dalla polizia invece che dal popolo.
Ho sempre vissuto qui senza aspettarmi nulla, perché vedevo le nostra vite come foto e immagini di un film di infinita sofferenza, di torture e di un silenzio di pietra.
Oggi, dopo 23 anni di silenzio mortale bisogna decidere di mescolare le nostre parole, il nostro pane, con il nostro sangue, per la nostra libertà.
LaTunisia alla fine ha dato una casa al suo sogno il 14 gennaio 2011, nonostante quello che è stato partorito nel 1987.
Ora lasciamo al mondo arabo una lezione che dimostri la volontà del popolo".