mercoledì 29 febbraio 2012

Se la politica (la nostra) non coincide con la vita


Poi arriva un momento in cui qualcosa non ci torna. Non ci torna la stanchezza, che non è la solita, piena, appagata dell'impegno. Non ci torna il nervosismo, che non è la tensione prima di un evento. Non ci torna il vuoto, che niente ha a che fare con il pieno della passione politica.
Spesso si dice che quello che facciamo per gli altri serve anche a noi stessi. È vero. Ma è altrettanto reale che quello che facciamo per noi, per stare bene con noi stessi, serve anche agli altri. Intendendo con questa espressione “gli altri”, la porzione di nostro tempo vitale che dedichiamo all'impegno civile, che sia dentro un partito, in un'associazione, o in una qualsiasi forma di movimento.
Mi sono chiesto cosa allora non collima, e ho trovato una risposta nel modo, nei meccanismi.
La cosa più temibile del capitalismo contro cui tanto ferocemente lottiamo, a ben pensarci, non sono i suoi frutti avvelenati, la disoccupazione, lo sfruttamento, l'inquinamento. Non sono l'oggetto del suo governo del mondo, ma la modalità con cui ne garantisce una costanza perpetuazione nel tempo.
Il capitalismo, così come le religioni nella loro parte più strutturale, quando diventano sistema di repressione, agisce innanzi tutto mediante privazione.
In particolare quello che viene tolto all'essere umano è il rapporto olistico e sensuale (inteso come uso pieno dei sensi) con il mondo che abita.
Il lavoro dettato dal capitale è imposizione di ritmi e tempi disumani, non-allineati alle esigenze del corpo umano. La metropoli e la produzione annullano qualsiasi rapporto con le stagioni, con il necessario ciclo di riposo individuale, con il contatto diretto tra umano e animale. Il lavoro nel sistema neoliberista recide, priva, mutila.
Anche la religione opera attraverso una prima fase di privazione. E lo fa principalmente mediante la proibizione. Dogmi, tabù, precetti. La casta sacerdotale attua una separazione dalla naturalezza carnale e dalla curiosità nei confronti della vita per i credenti comuni.
Privata dai punti di orientamento che la natura e i sensi forniscono, la persona viene svuotata di senso. Provvede quindi il sistema capitalista, o la religione a fornirne uno, totalizzante.
Nel primo caso si tratta della carriera, della costruzione di una famiglia e di uno status sociale di rispettabilità, nel secondo del guadagnarsi la vita ultraterrena.
Mozzato delle radici con la propria natura animale, l'essere umano si affida ad un senso puramente artificiale o quantomeno speculativo.
I ritmi o le proibizioni imposti sono così duri che ogni tanto a qualcuno viene voglia o necessità di cedere. Qui interviene il terzo step, che consiste nel senso di colpa.
Si concentra su un enorme paradosso. Il sistema economico per cui l'unità di produzione umana è appunto un numero insignificante ha il potere di farti credere indispensabile. Dal lavoro non puoi allontanarti un mese. Al solo pensiero ti senti in colpa e sei sicuro che al ritorno gli altri saranno andati avanti, sarai rimasto inesorabilmente indietro. Tagliato fuori. Meglio non rischiare. Del senso di colpa cristiano, sappiamo tutti, essendovi immersi sin dalla prima formazione, quindi non vale la pena dilungarvisi.
Il risultato di privazione,la fabbricazione di senso, e la induzione al senso di colpa costituiscono un sistema di alienazione individuale e globale che ha come meccanismo centrale il depotenziamento della relazione complessa tra noi e l'esistente.
Contro questo lottiamo e ci impegniamo.
Si, ma come?
Spesso l'impegno civile è vissuto come una forma di privazione e di autoesclusione da ampi pezzi di vita altra. Quante volte abbiamo pronunciato, in maniera più o meno compiaciuta: “Da quando faccio politica non ho più amici al di fuori di quella cerchia”?
Più aumenta l'impegno più diminuiscono i piaceri che rendono la vita degna d'essere vissuta: godersi una passeggiata o un pranzo con calma, andare al cinema o ad una mostra, conoscere una persona senza guardare sempre l'orologio, viaggiare per conoscere. Riposare.
Si lavora dopo il lavoro, per preparare un documento o un intervento fino a notte tarda. Si passa da una privazione all'altra. Si lavora un numero di ore impressionante, riproducendo sotto forma di autosfruttamento, lo sfruttamento del nostro corpo che altrove contestiamo.
Quando ormai la nostra sfera privata coincide con la sfera pubblica del nostro impegno, la politica ci viene in soccorso salvandoci da pericolosi vuoti di senso.
La lotta con i compagni, la comunità di resistenti, gli amici dell'associazione, diventano la nostra unica famiglia. E lo fa così potentemente, con la scusa dei buono propositi, che non vediamo quanto sia povera una vita in cui alla molteplicità di sensi si sovrappone un'unica monolitica battaglia.

In casi estremi, ci troviamo e ci identifichiamo in comunità molto chiuse, ben recintate, come l'antifascismo militante di alcuni, per cui chi non fa parte dei nostri, è necessariamente un fascista o un parafascista. Ancora steccati, ancora divisioni, ancora privazioni che in circolo vizioso ci obbligano a ingrossare a dismisura il senso per noi vitale della battaglia che conduciamo.
E anche qui, anche per l'impegno politico, il senso di colpa agisce, eccome. A pensarci bene la forza di un movimento dovrebbe essere proprio quella di procedere al di là delle defezioni – temporanee, parziali, o definitive - dei singoli.
Eppure, non importa cosa ti gridi la vita in quel momento, sottrarti significherebbe non fare la tua parte, rallentare il cambiamento.
A fronte di questo ragionamento, mi chiedo dunque che senso abbia lottare per abbattere un sistema che si basa sugli stessi meccanismi con cui finiamo con l'identificarci durante la lotta.
Se la politica non coincide con la vita, a cosa stiamo sacrificando parte sostanziale dei nostri anni migliori?
Come possiamo affermare un mondo più umano, parlare di decrescita, se noi per primi ci dimentichiamo dei nostri ritmi e delle nostre stagioni interiori per accelerare forsennatamente sulla strada dell'impegno, travolgendo incuranti o inconsapevoli la nostra stessa speranza di vivere già oggi una vita più degna di essere vissuta?
E come pensiamo di leggere adeguatamente il reale, se il mondo per cui e su cui facciamo politica si riduce gradualmente ma inesorabilmente al piccolo recinto di militanti e amici politicamente coscienti e impegnati, oppure avversari e nemici altrettanto politicamente coscienti e impegnati, che per forza di cose e di numeri sono solo una piccola parte della comunità complessa in cui viviamo?
Del punto di rottura e di non ritorno di questo genere di militanza e di come riempirla di ritmi vitali e di respiro animale, mi piacerebbe se ne parlasse di più.

martedì 21 febbraio 2012

E' grazie a Nevermind se noi trentenni imbolsiti poghiamo ai matrimoni


La maglietta l'avevo ordinata via posta chissà da quale catalogo musicale. Era un capolavoro del kitsch, ma che ne sapevo io a tredici anni del kitsch?
Al centro c'era una stampa enorme di Kurt Cobain in ginocchio con il suo leggendario ciuffo sopra un occhio e la chitarra piantata per terra in verticale, come la bandierina degli americani sulla luna, solo che lui la stava piantando sul pianeta discografia dei 5 continenti.

Dalle sue spalle partivano delle ali disegnate che arrivavano nei pressi delle ascelle di chi indossava la maglietta, cioè io. Tutto intorno, su sfondo bianco, erano disegnati simboli vari contenuti nei libretti degli album dei nirvana. Insomma, un baraccone ambulante.
Ma io la mettevo addosso, andavo a scuola e mi sembrava di essere il più cazzuto di tutta la classe.
Sono passati vent'anni da quando i Nirvana hanno pubblicato Nevermind e diciassette da quando Kurt Cobain si è sparato in faccia, spingendomi al lutto per una settimana, al primo anno di liceo.
Che volete che vi dica? Per noi foruncolosi in impetuoso passaggio adolescenziale nei primi anni Novanta, Nevermind era l'album perfetto. Non ci sentivano stronzi a prenderci a spallate saltellando l'uno contro l'altro. A dire il vero, mi sono anche un po' commosso quando di recente a un matrimonio di un mio caro amico dell'adolescenza, tutti imbolsiti, in maniche di camicia e stretti al collo da cravattini giusti, ci siamo messi a pogare appena è partita Smell like teen spirit. Sapeva di malinconia da sopravvissuti, tipo i nostri padri che cacavano il cazzo con i beatles, mentre noi volevamo sentire solo Lithium chiusi nella nostra stanza.
Insomma, io imparavo l'inglese traducendo i testi dei Nirvana e idolatravo Kurt Cobain, poster, magliettine e accessori inclusi. Una volta avevo registrato uno dei loro ultimi concerti mandati in diretta da radio 1, mi pare. Dal palaghiaccio di Marino, Roma, ricordo perfettamente. Avevo deciso di nobilitare la cassetta facendole una copertina con foto dei Nirvana a colori e con nessuna destrezza mi spruzzai la colla attak, quella che tre secondi e sei spacciato, in un occhio. Così, per dire che ascoltare i Nirvana era in un certo qual senso rischioso.
Quell'album, Nevermind, fu una bomba piazzata sotto il culo dei Guns'n'roses e di tutti quegli sculettanti rockers glamour che devo dire pure mi piacevano.
Con Cobain gli sfigati, i disadattati, quelli che un giorno avremmo chiamato nerd, erano diventati fighi.
Riempimmo i nostri armadi di orrende camicie di flanella a quadrettoni e pullover da far vomitare le tarme. Ci sentivamo parte di qualcosa che era uguale in tutto il mondo. Le feste in campagna ad Alcamo avevano diritto alla loro razione di rabbia e alienazione tanto quanto i sobborghi di Seattle o di Manchester.
Entravi in queste case disadorne e trovavi in giardino improvvisate cover band grunge. In una ci cantava Alessio che ora ha messo su un gruppo stile cantautori orchestrati, e non so perché, come la vita ti porti in luoghi imprevisti mi diverte tanto. Nel senso che noi in quegli anni ci avremmo sputato sopra a gente come De Gregori, De André, Battiato e se fosse esistito pure a Viniciocapossela. Dove non c'era riverbero, non c'era verità. Punto.

Stavamo nella periferia della periferia dell'Italia ma facevamo parte di un movimento, con tanto di fazioni e correnti. Chi stava con i Nirvana, chi con i Pearl Jam, chi con gli Smashing Pumpkins, o i Soundgarden, chi con gli Alice in Chains. Ma la lotta vera era tra i primi due. Chi diceva “Eddie Vedder ha una voce più bella, i pergem sono più bravi tecnicamente” aveva ragione, ma diceva una stronzata.
Mi ero da subito schierato con Cobain. Ecco allora come ora, quello che m'importa di una canzone, di un libro, di un film, è che sia roba viva, chi se ne fotte delle sbavature.
E Vedder era un figlio di papà, uno che c'era da giurarsi non s'era mai fatto in vena, che ne sapeva lui dello spleen e del vuoto e della bile che sputava Kurt?
E non era un dettaglio. Una volta avevo trovato, in campagna mi pare, un ossicino, forse di un cane.
Lo avevo portato a casa, lo avevo pulito, di nascosto da mia madre che mi avrebbe gridato di gettarlo imparanoiata dai germi, e lo avevo dipinto di rosso e blu. Su un lato avevo scritto “I hate myself and I want to die”, che era anche il titolo provvisorio di In utero.
Ogni tanto aprivo il cassetto dove lo avevo nascosto e me lo rigiravo tra le dita. Era una cosa carbonara, al pari delle poesie disperate che scrivevo per gioco, anche se io le trovavo una cosa serissima. Mi ricordo che mi piaceva un casino la parola apatia, la mettevo dappertutto.
A proposito di In utero, i fan dei Nirvana si dividevano in chi preferiva Nevermind e chi quest'altro.
Alcuni si ostinavano a preferire Bleach, il primo sporchissimo album, ma erano i soliti rifondaroli con la compulsione alla minoranza.
I più snob preferivano In utero a Nevermind, perché dicevano che quest'ultimo era troppo pop, troppo leccato.
Ed era vero che era troppo perfetto, in generale pure io preferisco le cose sporche. Per questo mi piace Vasco ad esempio, che è capace di mettere la parola Vomito in una splendida canzone oppure a parlare con una sorta di tenerezza di una relazione che la legge punirebbe con la galera.
Però Nevermind lo difendevo, perché era l'equilibrio perfetto, e non è possibile che ci si debba sempre sottrarre all'equilibrio. Insomma ogni tanto bisogna applaudire con la maggioranza e starsene zitti, senza ma e però. Che credo che abbia a che fare col crescere, ma in senso sano. Accettare la bellezza, ecco. E senza rompere il cazzo come se si fosse firmato un contratto con il dio delle zanzare.
Insomma, avevo sto poster di Kurt in camera, mi guardavo tutti i suoi video su Mtv, e volevo essere come lui. Credo che in quel pezzo di vita è iniziata la fascinazione per il mio contrario estetico. Se rinascessi vorrei essere magro, emaciato, biondo, stralunato. Cioè l'esatto opposto di me. Cioé Kurt Cobain.

Anche se lui era ancora da considerarsi integrato. Cobain era bello e indifeso, un pulcino spelacchiato. Era un tossico da passerella.
Il vero drogato sporco e irrecuperabile, che stava a Kurt come il punkabbestia sta all'alternativo, era Layne Stanley, il cantante degli Alice in Chains. Andava in giro con le magliette a maniche lunghe pure d'estate, perché si era bucato dappertutto. Ci dicevamo tra di noi che si bucava pure tra le dita delle mani.
Aveva la voce più bella e abissale che il rock abbia mai conosciuto. Quella di Kurt veniva dalle budella, e questo lo potevi ancora reggere. Quella di Layne arrivava dall'inferno, e francamente era troppo.
Quindi si è fatto fuori con una overdose da copione, e ci siamo accontentati di riascoltarlo di tanto in tanto, a piccole dosi.
Io intanto che avevo quattordici anni imparavo quelle due o tre canzoni dei Nirvana che mi facevano ritenere, chissà per quale assurda ragione, di avere un ottavo di ascendente in più con le ragazze. Figuriamoci.
Poi una mattina mi alzo alle sette e mezza e mentre mi bevo il mio latte caldo con caffè, l'insopportabile tg5 del mattino, quello che andava avanti a rullo per un'ora con edizioni da 15 minuti fatte di soli servizi, mi dice che il cantante del famoso gruppo Nirvana, Kurt Cobain (pronunciato alla capocchia di minchia, ma d'altronde mi sarei stupito del contrario) si era ucciso sparandosi un colpo in faccia. Fine della storia.

Cioè ci puoi argomentare quanto vuoi intorno, e smanettarti il cervello leggendo gli opinionisti che parlano di vuoto, successo, frustrazione e adolescenza, ma Kurt Cobain si era fatto schizzare il cervello sul parquet della sua casetta con tetto spiovente di Seattle. E ora lo potevi vedere tagliato a metà dalla finestra, grazie al potente zoom di un paparazzo americano, sdraiato nel salotto. Una mano, una gamba e un piede. Si è sparato in jeans e con addosso delle scarpe tipo Converse. Casual, e in questo oggi ci vedo una certa coerenza. Insomma, io mi sarei messo l'abito buono, per dire.
Nella lettera finale diceva “meglio andarsene con una fiammata che spegnersi lentamente”.

Confesso che non mi è mai piaciuta questa frase, mi sapeva di Jim Morrison, e io odiavo Jim Morrison.
Però era la frase che chiudeva quella lunga adolescenza sonora che era stato il grunge, smembrava le nostre tribù musicali, ci sfilacciava. Mi piacerebbe ora dire che con quel botto finiva la nostra adolescenza, sarebbe perfetto. Ma in realtà avremmo dovuti soffrire e vedere i nostri tratti somatici mutare e umiliarci ancora per anni. Avremmo abbandonato i Nirvana e quegli altri lentamente, come con un'amicizia che non ha più nulla da darti ma che per rispetto ammazzi con dose omeopatiche. Ci saremmo diplomati, saremmo andati a studiare fuori, e avremmo scoperto i Radiohead.
Belli, bellissimi, bravi, inarrivabili.

Ma i Nirvana... che te lo dico a fare?


domenica 19 febbraio 2012

"Canto l'infelicità italiana". Intervista a PIERPAOLO CAPOVILLA (Teatro degli Orrori)


C'è un gruppo rock nella scena indipendente italiana che può permettersi di citare il poeta Majakovskij e l'attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa nelle sue canzoni e allo stesso tempo fare da anni il tutto esaurito ai concerti.
Si chiama Il teatro degli orrori, esplicito rimando al teatro della crudeltà di Antonine Artaud, e la sua mente, nonché l'autore delle liriche è un personaggio fuori dal comune, Pierpaolo Capovilla.
Quarantacinquenne veneziano, dall'aria vissuta e gli occhi glaciali, dopo un discreto seguito negli anni '90 col suo primo gruppo, One dimensional man, ha raggiunto il successo nel mondo dell'indie rock con il secondo album del Teatro degli orrori, A sangue freddo, nel 2009. Ma solo un anno fa ha deciso di lasciare il lavoro di cameriere in un ristorante di Venezia. Non è l'unica stranezza di un maudit che vive la musica come strumento politico e poetico, ma poi alle urne sceglie il riformismo un po' grigio del Partito democratico. E che si diverte a dedicare un velenoso verso ad Asor Rosa nel suo nuovo album  Il mondo nuovo.


State per pubblicare un concept album sui migranti. Una scelta insolita...
Credo che la questione dei migranti siano oggi il paradigma della società in cui viviamo. Attraverso le storie dei migranti, parlo di noi, dell'Italia. Mi interessa il lato più intimo, più privato, proprio perché voglio toccare la parte più viva e trovare quello di me che c'è nell'altro.
Il privato è politico anche nella musica?
Io ho sempre interpretato il mio mestiere come un mestiere profondamente politico. Il nostro è un disco di lotta, che ha alla base in concetto di uguaglianza. Parlare di migranti oggi in Italia è come mettere il dito nella piaga dei pregiudizi, della xenofobia e dell'egoismo di questo paese, dopo vent'anni di edonismo berlusconiano.
Riecco lo spettro di Silvio.
Non è solo colpa sua, c'è  anche una classe politica pessima e una società civile che si gira dall'altra parte.
Oggi in Italia è raro che un gruppo rock faccia testi esplicitamente politici.
É vero, soprattutto nel settore musicale mainstream, ma nella scena indipendente sta crescendo una certa attenzione alla critica sociale. Cito un nome per tutti, Vasco Brondi delle Luci della centrale elettrica. Sono convinto che si possa fare musica leggera, perché il rock essendo popolare e di largo consumo rientra nella musica leggera, contribuendo alla rimodulazione dell'immaginario collettivo, che oggi è forse la categoria politica più importante. Da lì partire per cambiare le cose.
I tuoi pezzi strabordano di citazioni.
La mia ambizione più grande è provare a mettere un po' di poesia nella musica rock. Nel disco ho inserito citazioni in maniera sistematica, quasi strategica, dei grandi lirici del '900. in particolare del poco conosciuto Stratanovskij, del grande Esenin e di Brodskij, che tanto amava l'Italia e che è seppellito nella mia Venezia.
Le metti per fare il figo?
La funzione di tutte queste citazioni è quella di voler divulgare la cultura. Può far sorridere, ma io ce l'ho veramente questa vocazione, e considero la cultura molto più importante di tanti altri aspetti. Poi c'è da dire che queste citazioni subiscono nei miei pezzi una potente manipolazione e ricontestualizzazione che le trascina nel “qui e ora” e ne fa implodere o esplodere il significato. Credo nessuno si rivolterà nella tomba.
Citi soprattutto poeti.
Amo la poesia. Sono convinto che sia il fulcro di tante cose, quello che si avvicina più alla verità, anche se so bene che le verità sono tante e non si lasciano mai inquadrare.
E infatti lo scorso anno hai portato in giro un reading su  Majakovskij. Come hanno reagito i ventenni che non lo conoscevano?
Il successo della tournè su Majakovskij è stato sorprendente. Al teatro di Perugia siamo riusciti a far commuovere le vecchiette, a Napoli lo abbiamo fatto in un parcheggio a due passi da Scampia. E poi abbiamo girato anche nei centri sociali. Al Conchetta di Milano il pubblico è rimasto in un silenzio religioso per un'ora e venti, la durata dello spettacolo.
Nelle tue canzoni c'è sempre una tensione verso qualcosa che manca. Si può dire che i tuoi dischi sono in questo senso “utopici”?
L'utopia è stata e può essere una grande forma del progresso, ma in un certo senso il nostro disco è anche distopico, per citare Huxley. E cioè è vero che un mondo migliore è possibile, ma un mondo peggiore è oggi infinitamente più probabile.
Il pezzo Rivendico sembra il manifesto della tua poetica. Il ritornello dice “rivendico l'amore”. Mischi spesso parole intime a termini politici.
Ma il rapporto d'amore tra un uomo e una donna, o tra un uomo e un uomo e una donna e una donna, che cos'è se non un rapporto sociale? In questi rapporti intimi si esprimono ingiustizie, frustrazioni vissute a livello sociale. Io li uso come espediente per parlare d'altro.
E spesso le storie di cui parli raccontano di persone  schiacciate dal lavoro, che fanno una vita che non è la loro.
L'infelicità diffusa è esattamente ciò che viviamo in Italia.
Tu sei quello che normalmente si definisce un “animale da palco”.
A me interessa il concerto nella sua evenemenzialità, come evento. Viviamo nella società dello spettacolo dove, per dirla con Debord, lo spettacolo è la più raffinata delle merci. Ma per come la vedo io, un concerto non è una rappresentazione, ma un momento di vita in cui la mia esistenza resuscita, in cui amo e mi sento vivo. E credo che riguardi anche quelli che vengono a vederci e partecipano ad un momento in cui sentirsi finalmente vivi. Poi tornano a casa davanti alla tv, in fabbrica a menar bulloni o in ufficio a far di conto, ed è lì che crepano minuto per minuto, giorno per giorno, attraverso la routinizzazione che rende la vita insulsa.
Per i tuoi detrattori sei uno che si prende troppo sul serio.
Io mi prendo sul serio nella misura in cui credo in quello che faccio. La dimensione artistica diventa cultura soprattutto nella dimensione letteraria. Dopodiché, lo so che sono un clown, mi sento un pagliaccio, del resto ho più di quarant'anni e sto ancora sul palco a fare il rockettaro.
Nella scena indipendente italiana, sei uno dei pochi che non punta tutto sulla carta dell'autoironia, come fanno ad esempio Dente e Brunori Sas, che mi fanno pensare un po' alla generazione dei trentenni che scherza su tutto e si dimentica di agire.
 È vero che nel mio lavoro manca l'ironia, preferisco il dramma e la tragedia. Dente è un ragazzo intelligentissimo, che fa del disimpegno la sua bandiera, però io non la penso così. Quello che veniva definito cantautorato fino alla metà degli anni '80, erano canzoni popolari, d'amore, con parole forti, legate intimamente alla realtà sociale. E questo loro lo cercavano, lo volevano. Io spero che il nostro lavoro possa in qualche maniera inserirsi in quella tradizione, pur nel rinnovamento.
Che ne pensi dei movimenti degli ultimi anni, soprattutto di quelli che adottano forme di protesta violente, come nel caso del 15 ottobre a Roma?
Stavo leggendo un bellissimo libro del filosofo sloveno Slavoj Žižek, La violenza invisibile, in cui lui distingue la violenza in soggettiva, oggettiva e simbolica. Quella soggettiva è quella che io individuo posso esercitare nei confronti di un altro. L'oggettiva è quella dello stato, che impone un sistema basato sullo sfruttamento e sulla repressione. Quella simbolica è la violenza veicolata dai media. In questo momento specialmente, la violenza fa parte della nostra società, quindi io non me la sento di biasimare un ragazzo che viene colpito da questa violenza e preso dalla rabbia spacca tutto. A questo si aggiunga una seconda riflessione...
Quale?
Spesso si sente dire dai politici, “i giovani si sono disaffezionati alla politica, e per questo poi fanno casino”. Ma dietro i cappucci neri dei black block ci sono sin troppo spesso persone che la politica la vivono ogni giorni, ci sono i compagni dei centri sociali, come qui a Venezia, che si sbattono anche con i più poveri, che le notti più fredde vanno in giro a cercare i barboni per dargli una minestra calda e offrirgli un tetto per ripararsi. Questa è politica con tutte le lettere maiuscole. C'è un tale sentimento diffuso di insoddisfazione, frustrazione e infelicità, che è inevitabile sfoci nella violenza.  Se la politica non pensa alla vita delle persone, prima o poi queste si alzano e gridano.
Fai tanto il rivoluzionario ma poi sei iscritto al Pd, per molti tuoi fan è incomprensibile.
Mi sono iscritto al Pd nel 2009, sono stato trascinato da dei compagni di Venezia, e ho fatto un po' di militanza. Poi non mi sono più iscritto. A Firenze una giovane ragazza mi ha dato del fascista per questa cosa.  A diciotto anni ho votato per la prima volta Pci, oggi voto Pd. Non sono uno che cambia facilmente idea.
Si, ma perché non un altro partito a sinistra?
Perché sono convinto che il Pd sia l'unico partito che possa combinare qualcosa di significativo in questo paese. Il ceto politico, anche nella sinistra radicale, ha un attaccamento eccessivo nei confronti dei piccoli privilegi. Lo si vede nelle divisioni tra comunisti in piccoli partiti, che spesso rispondono più a logiche di interessi personali e di correnti che ad altro. Solo che così finisce come Guzzanti che imita Bertinotti, divertentissimo, per cui la sinistra si divide fino a diventare una serie di zanzare che si limitano a punzecchiare. Forse sono troppo pragmatico.
Nella canzone Rivendico, metti in bocca ad Asor Rosa le parole: “non ho niente da dire, tanto nessuno, ormai nessuno mi ascolta”. Cattivo.
Ho voluto giocare, non me ne voglia Asor Rosa, che è un grande critico letterario ma anche un intellettuale vetero marxista. Nella canzone, Pasolini rappresenta il passato, la nostra coscienza civile,  Žižek è il futuro, il filosofo più pericoloso dell'Occidente, come l'ha definito la stampa Usa. E Asor Rosa il presente, fatto di vetero marxisti che nessuno sta più ad ascoltare. Rappresenta il punto a cui sono gli intellettuali italiani, fermi, rigidi. Invece c'è bisogno di rinnovare il marxismo. Ma non volevo deridere Asor Rosa.
Invece nel primo singolo del nuovo album, Io cerco te, canti: “Roma Capitale, sei ripugnante, non ti sopporto più”. Questa la devi spiegare bene ai lettori romani.
Roma non è solo la capitale e l'unica vera metropoli italiana, ma è anche lo specchio della società italiana, sempre più individualista e infelice. È una frase ad effetto, che sta funzionando, tanto che qualcuno mi ha accusato di inneggiare al leghismo. Un caso di evidente analfabetismo politico. Poi è vero che Roma in sé è peggiorata, governata com'è da questi farabutti.


 intervista pubblicata sul settimanale Gli Altri 

giovedì 9 febbraio 2012

Il gabibbo e il cadavere del precario


La nausea che mi viene quando cominciano ad arrivare sulla mia bacheca facebook le battute a valanga su Monti e posto fisso è ormai quasi pari a quella che mi prende quando il premier o uno dei suoi se ne esce con una battuta sprezzante in pieno stile governo Berlusconi.
Seguono lettere del precario a Mario Monti, appelli indignati, flash mob e last but not least, le famigerate invitate in trasmissione.
Chiamano l'amico che si sbatte tutti i giorni per organizzare l'incazzatura e trasformarla in politica e gli chiedono: “mi serve una ragazza, dai 20 ai 30, precaria, con una storia di mille lavoretti malpagati alle spalle, e possibilmente un'insostenibile voglia di maternità frustrata. Entro oggi a pranzo ho bisogno del nome”.

Da quando è stato scoperto dalle faine televisive, cioè con un decennio buono di ritardo, il precario trattato come un qualsiasi fattoide è diventato uno dei feticci tv dei nostri giorni.
Assieme al metalmeccanico, a cui Santoro mette a disposizione il suo tinello pubblico per gridare arrabbiato, o come il gabibbo, un pupazzo di gommapiuma rossotinta che dovrebbe insegnare il buon giornalismo a quegli altri.
Nel caso del precario, la bidimensionalità un tempo catodica impone un basso profilo, aria piagnucolosa e blande frasi di rivendicazione, mal tollerate dal presentatore che preferisce il racconto della propria sfiga personale. Al precario in tv è assegnata la sorte di quattrocchi dei puffi: un cacacazzi vittimista che prima o poi verrà lanciato lontano dal villaggio per stare un po' in santa pace.

Io invece penso che il discorso salutare che i precari hanno cominciato a fare rispetto il livello minimo di dignità economica del loro lavoro, andrebbe traslato anche rispetto alla rappresentanza mediatica.
E cioè, la forza dello sfruttamento e dei livelli miseri di paga e di condizioni lavorative risiede nel fatto che c'è sempre qualcuno disposto a farlo se tu non vuoi. Ma se si stabilisce tutti insieme, come ad esempio cominciano a fare i precari dei giornali, che meno di tot a mansione preferisco non lavorare, allora a poco a poco i datori di lavoro dovranno migliorare le offerte.
E insomma, dovremmo cominciare a rifiutarci di andare in tv per fare il gabibbo della sfiga precaria. Dovremmo contrattare la possibilità di parlare di politica e di politiche. Altrimenti lasciare l'amica o l'amico in redazione senza il loro cadavere di precario (parafrasando Amore tossico).
Oppure dire di sì, che faremo i piagnoni, e poi parlare di reddito minimo garantito, di diritto all'abitare, di legalizzazione delle droghe, di reale contrasto alle mafie.

Però, per fare questo passaggio, bisogna che anche noi usciamo dagli automatismi pavloviani che ci spingono a rispondere con indignazione o con ipertrofia spinoziana (nel senso del sito satirico, non del filosofo) a ogni stronzata che dicono Monti o la Fornero.
Ad esempio, possibile che nel 2012 a uno che dice il posto fisso è monotono, si debba rispondere compatti: “No! Il posto fisso è una figata pazzesca!”?
A me puzza di sfiga e retroguardia. Mi sembra più vivo rispondere “dammi diritti e continuità di reddito, e ti assicuro che sarei il primo a mandarlo a fare in culo, il posto fisso”.

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