La maglietta l'avevo ordinata via posta chissà da quale catalogo musicale. Era un capolavoro del kitsch, ma che ne sapevo io a tredici anni del kitsch?
Al centro c'era una stampa enorme di Kurt Cobain in ginocchio con il suo leggendario ciuffo sopra un occhio e la chitarra piantata per terra in verticale, come la bandierina degli americani sulla luna, solo che lui la stava piantando sul pianeta discografia dei 5 continenti.
Dalle sue spalle partivano delle ali disegnate che arrivavano nei pressi delle ascelle di chi indossava la maglietta, cioè io. Tutto intorno, su sfondo bianco, erano disegnati simboli vari contenuti nei libretti degli album dei nirvana. Insomma, un baraccone ambulante.
Ma io la mettevo addosso, andavo a scuola e mi sembrava di essere il più cazzuto di tutta la classe.
Sono passati vent'anni da quando i Nirvana hanno pubblicato Nevermind e diciassette da quando Kurt Cobain si è sparato in faccia, spingendomi al lutto per una settimana, al primo anno di liceo.
Che volete che vi dica? Per noi foruncolosi in impetuoso passaggio adolescenziale nei primi anni Novanta, Nevermind era l'album perfetto. Non ci sentivano stronzi a prenderci a spallate saltellando l'uno contro l'altro. A dire il vero, mi sono anche un po' commosso quando di recente a un matrimonio di un mio caro amico dell'adolescenza, tutti imbolsiti, in maniche di camicia e stretti al collo da cravattini giusti, ci siamo messi a pogare appena è partita Smell like teen spirit. Sapeva di malinconia da sopravvissuti, tipo i nostri padri che cacavano il cazzo con i beatles, mentre noi volevamo sentire solo Lithium chiusi nella nostra stanza.
Insomma, io imparavo l'inglese traducendo i testi dei Nirvana e idolatravo Kurt Cobain, poster, magliettine e accessori inclusi. Una volta avevo registrato uno dei loro ultimi concerti mandati in diretta da radio 1, mi pare. Dal palaghiaccio di Marino, Roma, ricordo perfettamente. Avevo deciso di nobilitare la cassetta facendole una copertina con foto dei Nirvana a colori e con nessuna destrezza mi spruzzai la colla attak, quella che tre secondi e sei spacciato, in un occhio. Così, per dire che ascoltare i Nirvana era in un certo qual senso rischioso.
Quell'album, Nevermind, fu una bomba piazzata sotto il culo dei Guns'n'roses e di tutti quegli sculettanti rockers glamour che devo dire pure mi piacevano.
Con Cobain gli sfigati, i disadattati, quelli che un giorno avremmo chiamato nerd, erano diventati fighi.
Riempimmo i nostri armadi di orrende camicie di flanella a quadrettoni e pullover da far vomitare le tarme. Ci sentivamo parte di qualcosa che era uguale in tutto il mondo. Le feste in campagna ad Alcamo avevano diritto alla loro razione di rabbia e alienazione tanto quanto i sobborghi di Seattle o di Manchester.
Entravi in queste case disadorne e trovavi in giardino improvvisate cover band grunge. In una ci cantava Alessio che ora ha messo su un gruppo stile cantautori orchestrati, e non so perché, come la vita ti porti in luoghi imprevisti mi diverte tanto. Nel senso che noi in quegli anni ci avremmo sputato sopra a gente come De Gregori, De André, Battiato e se fosse esistito pure a Viniciocapossela. Dove non c'era riverbero, non c'era verità. Punto.
Stavamo nella periferia della periferia dell'Italia ma facevamo parte di un movimento, con tanto di fazioni e correnti. Chi stava con i Nirvana, chi con i Pearl Jam, chi con gli Smashing Pumpkins, o i Soundgarden, chi con gli Alice in Chains. Ma la lotta vera era tra i primi due. Chi diceva “Eddie Vedder ha una voce più bella, i pergem sono più bravi tecnicamente” aveva ragione, ma diceva una stronzata.
Mi ero da subito schierato con Cobain. Ecco allora come ora, quello che m'importa di una canzone, di un libro, di un film, è che sia roba viva, chi se ne fotte delle sbavature.
E Vedder era un figlio di papà, uno che c'era da giurarsi non s'era mai fatto in vena, che ne sapeva lui dello spleen e del vuoto e della bile che sputava Kurt?
E non era un dettaglio. Una volta avevo trovato, in campagna mi pare, un ossicino, forse di un cane.
Lo avevo portato a casa, lo avevo pulito, di nascosto da mia madre che mi avrebbe gridato di gettarlo imparanoiata dai germi, e lo avevo dipinto di rosso e blu. Su un lato avevo scritto “I hate myself and I want to die”, che era anche il titolo provvisorio di In utero.
Ogni tanto aprivo il cassetto dove lo avevo nascosto e me lo rigiravo tra le dita. Era una cosa carbonara, al pari delle poesie disperate che scrivevo per gioco, anche se io le trovavo una cosa serissima. Mi ricordo che mi piaceva un casino la parola apatia, la mettevo dappertutto.
A proposito di In utero, i fan dei Nirvana si dividevano in chi preferiva Nevermind e chi quest'altro.
Alcuni si ostinavano a preferire Bleach, il primo sporchissimo album, ma erano i soliti rifondaroli con la compulsione alla minoranza.
I più snob preferivano In utero a Nevermind, perché dicevano che quest'ultimo era troppo pop, troppo leccato.
Ed era vero che era troppo perfetto, in generale pure io preferisco le cose sporche. Per questo mi piace Vasco ad esempio, che è capace di mettere la parola Vomito in una splendida canzone oppure a parlare con una sorta di tenerezza di una relazione che la legge punirebbe con la galera.
Però Nevermind lo difendevo, perché era l'equilibrio perfetto, e non è possibile che ci si debba sempre sottrarre all'equilibrio. Insomma ogni tanto bisogna applaudire con la maggioranza e starsene zitti, senza ma e però. Che credo che abbia a che fare col crescere, ma in senso sano. Accettare la bellezza, ecco. E senza rompere il cazzo come se si fosse firmato un contratto con il dio delle zanzare.
Insomma, avevo sto poster di Kurt in camera, mi guardavo tutti i suoi video su Mtv, e volevo essere come lui. Credo che in quel pezzo di vita è iniziata la fascinazione per il mio contrario estetico. Se rinascessi vorrei essere magro, emaciato, biondo, stralunato. Cioè l'esatto opposto di me. Cioé Kurt Cobain.
Anche se lui era ancora da considerarsi integrato. Cobain era bello e indifeso, un pulcino spelacchiato. Era un tossico da passerella.
Il vero drogato sporco e irrecuperabile, che stava a Kurt come il punkabbestia sta all'alternativo, era Layne Stanley, il cantante degli Alice in Chains. Andava in giro con le magliette a maniche lunghe pure d'estate, perché si era bucato dappertutto. Ci dicevamo tra di noi che si bucava pure tra le dita delle mani.
Aveva la voce più bella e abissale che il rock abbia mai conosciuto. Quella di Kurt veniva dalle budella, e questo lo potevi ancora reggere. Quella di Layne arrivava dall'inferno, e francamente era troppo.
Quindi si è fatto fuori con una overdose da copione, e ci siamo accontentati di riascoltarlo di tanto in tanto, a piccole dosi.
Io intanto che avevo quattordici anni imparavo quelle due o tre canzoni dei Nirvana che mi facevano ritenere, chissà per quale assurda ragione, di avere un ottavo di ascendente in più con le ragazze. Figuriamoci.
Poi una mattina mi alzo alle sette e mezza e mentre mi bevo il mio latte caldo con caffè, l'insopportabile tg5 del mattino, quello che andava avanti a rullo per un'ora con edizioni da 15 minuti fatte di soli servizi, mi dice che il cantante del famoso gruppo Nirvana, Kurt Cobain (pronunciato alla capocchia di minchia, ma d'altronde mi sarei stupito del contrario) si era ucciso sparandosi un colpo in faccia. Fine della storia.
Cioè ci puoi argomentare quanto vuoi intorno, e smanettarti il cervello leggendo gli opinionisti che parlano di vuoto, successo, frustrazione e adolescenza, ma Kurt Cobain si era fatto schizzare il cervello sul parquet della sua casetta con tetto spiovente di Seattle. E ora lo potevi vedere tagliato a metà dalla finestra, grazie al potente zoom di un paparazzo americano, sdraiato nel salotto. Una mano, una gamba e un piede. Si è sparato in jeans e con addosso delle scarpe tipo Converse. Casual, e in questo oggi ci vedo una certa coerenza. Insomma, io mi sarei messo l'abito buono, per dire.
Nella lettera finale diceva “meglio andarsene con una fiammata che spegnersi lentamente”.
Confesso che non mi è mai piaciuta questa frase, mi sapeva di Jim Morrison, e io odiavo Jim Morrison.
Però era la frase che chiudeva quella lunga adolescenza sonora che era stato il grunge, smembrava le nostre tribù musicali, ci sfilacciava. Mi piacerebbe ora dire che con quel botto finiva la nostra adolescenza, sarebbe perfetto. Ma in realtà avremmo dovuti soffrire e vedere i nostri tratti somatici mutare e umiliarci ancora per anni. Avremmo abbandonato i Nirvana e quegli altri lentamente, come con un'amicizia che non ha più nulla da darti ma che per rispetto ammazzi con dose omeopatiche. Ci saremmo diplomati, saremmo andati a studiare fuori, e avremmo scoperto i Radiohead.
Belli, bellissimi, bravi, inarrivabili.
Ma i Nirvana... che te lo dico a fare?