Poi arriva un momento in cui qualcosa non
ci torna. Non ci torna la stanchezza, che non è la solita, piena,
appagata dell'impegno. Non ci torna il nervosismo, che non è la
tensione prima di un evento. Non ci torna il vuoto, che niente ha a
che fare con il pieno della passione politica.
Spesso si dice che quello che facciamo
per gli altri serve anche a noi stessi. È vero. Ma è altrettanto
reale che quello che facciamo per noi, per stare bene con noi stessi,
serve anche agli altri. Intendendo con questa espressione “gli
altri”, la porzione di nostro tempo vitale che dedichiamo
all'impegno civile, che sia dentro un partito, in un'associazione, o
in una qualsiasi forma di movimento.
Mi sono chiesto cosa allora non
collima, e ho trovato una risposta nel modo, nei meccanismi.
La cosa più temibile del capitalismo
contro cui tanto ferocemente lottiamo, a ben pensarci, non sono i
suoi frutti avvelenati, la disoccupazione, lo sfruttamento,
l'inquinamento. Non sono l'oggetto del suo governo del mondo, ma la
modalità con cui ne garantisce una costanza perpetuazione nel tempo.
Il capitalismo, così come le religioni
nella loro parte più strutturale, quando diventano sistema di
repressione, agisce innanzi tutto mediante privazione.
In particolare quello che viene tolto
all'essere umano è il rapporto olistico e sensuale (inteso come uso
pieno dei sensi) con il mondo che abita.
Il lavoro dettato dal capitale è
imposizione di ritmi e tempi disumani, non-allineati alle esigenze
del corpo umano. La metropoli e la produzione annullano qualsiasi
rapporto con le stagioni, con il necessario ciclo di riposo
individuale, con il contatto diretto tra umano e animale. Il lavoro
nel sistema neoliberista recide, priva, mutila.
Anche la religione opera attraverso una
prima fase di privazione. E lo fa principalmente mediante la
proibizione. Dogmi, tabù, precetti. La casta sacerdotale attua una
separazione dalla naturalezza carnale e dalla curiosità nei
confronti della vita per i credenti comuni.
Privata dai punti di orientamento che
la natura e i sensi forniscono, la persona viene svuotata di senso.
Provvede quindi il sistema capitalista, o la religione a fornirne
uno, totalizzante.
Nel primo caso si tratta della
carriera, della costruzione di una famiglia e di uno status sociale
di rispettabilità, nel secondo del guadagnarsi la vita ultraterrena.
Mozzato delle radici con la propria
natura animale, l'essere umano si affida ad un senso puramente
artificiale o quantomeno speculativo.
I ritmi o le proibizioni imposti sono
così duri che ogni tanto a qualcuno viene voglia o necessità di
cedere. Qui interviene il terzo step, che consiste nel senso di
colpa.
Si concentra su un enorme paradosso. Il
sistema economico per cui l'unità di produzione umana è appunto un
numero insignificante ha il potere di farti credere indispensabile.
Dal lavoro non puoi allontanarti un mese. Al solo pensiero ti senti
in colpa e sei sicuro che al ritorno gli altri saranno andati avanti,
sarai rimasto inesorabilmente indietro. Tagliato fuori. Meglio non
rischiare. Del senso di colpa cristiano, sappiamo tutti, essendovi
immersi sin dalla prima formazione, quindi non vale la pena
dilungarvisi.
Il risultato di privazione,la
fabbricazione di senso, e la induzione al senso di colpa
costituiscono un sistema di alienazione individuale e globale che ha
come meccanismo centrale il depotenziamento della relazione complessa
tra noi e l'esistente.
Contro questo lottiamo e ci impegniamo.
Si, ma come?
Spesso l'impegno civile è vissuto come
una forma di privazione e di autoesclusione da ampi pezzi di vita
altra. Quante volte abbiamo pronunciato, in maniera più o meno
compiaciuta: “Da quando faccio politica non ho più amici al di
fuori di quella cerchia”?
Più aumenta l'impegno più
diminuiscono i piaceri che rendono la vita degna d'essere vissuta:
godersi una passeggiata o un pranzo con calma, andare al cinema o ad
una mostra, conoscere una persona senza guardare sempre l'orologio,
viaggiare per conoscere. Riposare.
Si lavora dopo il lavoro, per preparare
un documento o un intervento fino a notte tarda. Si passa da una
privazione all'altra. Si lavora un numero di ore impressionante,
riproducendo sotto forma di autosfruttamento, lo sfruttamento del
nostro corpo che altrove contestiamo.
Quando ormai la nostra sfera privata
coincide con la sfera pubblica del nostro impegno, la politica ci
viene in soccorso salvandoci da pericolosi vuoti di senso.
La lotta con i compagni, la comunità
di resistenti, gli amici dell'associazione, diventano la nostra unica
famiglia. E lo fa così potentemente, con la scusa dei buono
propositi, che non vediamo quanto sia povera una vita in cui alla
molteplicità di sensi si sovrappone un'unica monolitica battaglia.
In casi estremi, ci troviamo e ci
identifichiamo in comunità molto chiuse, ben recintate, come
l'antifascismo militante di alcuni, per cui chi non fa parte dei
nostri, è necessariamente un fascista o un parafascista. Ancora
steccati, ancora divisioni, ancora privazioni che in circolo vizioso
ci obbligano a ingrossare a dismisura il senso per noi vitale della
battaglia che conduciamo.
E anche qui, anche per l'impegno
politico, il senso di colpa agisce, eccome. A pensarci bene la forza
di un movimento dovrebbe essere proprio quella di procedere al di là
delle defezioni – temporanee, parziali, o definitive - dei singoli.
Eppure, non importa cosa ti gridi la
vita in quel momento, sottrarti significherebbe non fare la tua
parte, rallentare il cambiamento.
A fronte di questo ragionamento, mi
chiedo dunque che senso abbia lottare per abbattere un sistema che si
basa sugli stessi meccanismi con cui finiamo con l'identificarci
durante la lotta.
Se la politica non coincide con la
vita, a cosa stiamo sacrificando parte sostanziale dei nostri anni
migliori?
Come possiamo affermare un mondo più umano, parlare di decrescita, se noi per primi ci dimentichiamo dei nostri ritmi e delle nostre stagioni interiori per accelerare forsennatamente sulla strada dell'impegno, travolgendo incuranti o inconsapevoli la nostra stessa speranza di vivere già oggi una vita più degna di essere vissuta?
Come possiamo affermare un mondo più umano, parlare di decrescita, se noi per primi ci dimentichiamo dei nostri ritmi e delle nostre stagioni interiori per accelerare forsennatamente sulla strada dell'impegno, travolgendo incuranti o inconsapevoli la nostra stessa speranza di vivere già oggi una vita più degna di essere vissuta?
E come pensiamo di leggere
adeguatamente il reale, se il mondo per cui e su cui facciamo
politica si riduce gradualmente ma inesorabilmente al piccolo recinto
di militanti e amici politicamente coscienti e impegnati, oppure
avversari e nemici altrettanto politicamente coscienti e impegnati,
che per forza di cose e di numeri sono solo una piccola parte della
comunità complessa in cui viviamo?
Del punto di rottura e di non ritorno
di questo genere di militanza e di come riempirla di ritmi vitali e
di respiro animale, mi piacerebbe se ne parlasse di più.