lunedì 30 aprile 2012

Cari maschi, ma quale solidarietà? Siamo noi che abbiamo bisogno d'aiuto


Stiamo pranzando in una trattoria e questa mia amica mi racconta di una coppia di amici che stanno per avere un figlio. Lui è una persona adorabile, però quando si arrabbia ha scatti di ira eccessivi e incontrollati.
In vista della nascita del figlio, il ragazzo decide di andare in un centro specializzato per controllare la rabbia. Rimane lì qualche giorno (forse settimane, non ricordo) e ritorna a casa sereno. Non ha più gli scatti d'ira, sto quasi cominciando a volergli bene, scherza la mia amica.
Ora, davanti a quel numero, 54, che rappresenta le donne uccise dai compagni dall'inizio dell'anno in Italia, da quel numero agghiacciante, io non credo che la soluzione sia andare tutti a chiuderci per una settimana in un centro per la gestione della rabbia in Toscana.
Però queste due cose, messe insieme, mi fanno riflettere.
Le donne che chiedono di occuparsi finalmente, decisamente, politicamente, dei femminicidi in Italia, dicono senza mezzi termini, e senza paura di smentita, che c'è un problema culturale enorme alla base di questo sangue. E così è.
A partire dal fatto che quando c'è un uomo che picchia a sangue la sua compagna, l'unica risposta che la nostra società sa dare è la medicalizzazione della parte lesa. I centri antiviolenza per le donne sono uno strumento prezioso, da difendere con le unghia e con i denti, da sostenere, da diffondere. Ma mi chiedo se non manchi un grosso pezzo, se in una società in cui un uomo massacra di botte una donna, si dia per scontato che il post-trauma riguardi solo la vittima.
Che, in altre parole, non sia l'uomo che debba farsi curare innanzi tutto. Come se fosse normale, o passionale come titolano i giornali, prendere a calci e pugni, strangolare, umiliare, una donna che non ti ama più. Perché il grande e utile lavoro che è stato fatto in questi anni per diffondere tra le donne vittime di violenza la conoscenza di centri  adatti a prendersi cura di loro - lavoro plurale, spesso fatto con la fatica di volontarie e volontari e senza l'aiuto dello stato - non viene affiancato da uno sforzo altrettanto importante rivolto agli uomini?
Se non riesci a controllare la tua ira, se non riesci ad accettare che lei non ti ama più, se hai voglia di strozzarla perché ride con un altro, perché fa sesso con un altro, se perdi la ragione perché tua moglie si veste troppo provocante... curati. Curati. Parlane con qualcuno che ti riporti alla realtà. Sfoga la rabbia in altro modo. Fatti aiutare. Curati.

pubblicato anche su Facebook, qui.

mercoledì 29 febbraio 2012

Se la politica (la nostra) non coincide con la vita


Poi arriva un momento in cui qualcosa non ci torna. Non ci torna la stanchezza, che non è la solita, piena, appagata dell'impegno. Non ci torna il nervosismo, che non è la tensione prima di un evento. Non ci torna il vuoto, che niente ha a che fare con il pieno della passione politica.
Spesso si dice che quello che facciamo per gli altri serve anche a noi stessi. È vero. Ma è altrettanto reale che quello che facciamo per noi, per stare bene con noi stessi, serve anche agli altri. Intendendo con questa espressione “gli altri”, la porzione di nostro tempo vitale che dedichiamo all'impegno civile, che sia dentro un partito, in un'associazione, o in una qualsiasi forma di movimento.
Mi sono chiesto cosa allora non collima, e ho trovato una risposta nel modo, nei meccanismi.
La cosa più temibile del capitalismo contro cui tanto ferocemente lottiamo, a ben pensarci, non sono i suoi frutti avvelenati, la disoccupazione, lo sfruttamento, l'inquinamento. Non sono l'oggetto del suo governo del mondo, ma la modalità con cui ne garantisce una costanza perpetuazione nel tempo.
Il capitalismo, così come le religioni nella loro parte più strutturale, quando diventano sistema di repressione, agisce innanzi tutto mediante privazione.
In particolare quello che viene tolto all'essere umano è il rapporto olistico e sensuale (inteso come uso pieno dei sensi) con il mondo che abita.
Il lavoro dettato dal capitale è imposizione di ritmi e tempi disumani, non-allineati alle esigenze del corpo umano. La metropoli e la produzione annullano qualsiasi rapporto con le stagioni, con il necessario ciclo di riposo individuale, con il contatto diretto tra umano e animale. Il lavoro nel sistema neoliberista recide, priva, mutila.
Anche la religione opera attraverso una prima fase di privazione. E lo fa principalmente mediante la proibizione. Dogmi, tabù, precetti. La casta sacerdotale attua una separazione dalla naturalezza carnale e dalla curiosità nei confronti della vita per i credenti comuni.
Privata dai punti di orientamento che la natura e i sensi forniscono, la persona viene svuotata di senso. Provvede quindi il sistema capitalista, o la religione a fornirne uno, totalizzante.
Nel primo caso si tratta della carriera, della costruzione di una famiglia e di uno status sociale di rispettabilità, nel secondo del guadagnarsi la vita ultraterrena.
Mozzato delle radici con la propria natura animale, l'essere umano si affida ad un senso puramente artificiale o quantomeno speculativo.
I ritmi o le proibizioni imposti sono così duri che ogni tanto a qualcuno viene voglia o necessità di cedere. Qui interviene il terzo step, che consiste nel senso di colpa.
Si concentra su un enorme paradosso. Il sistema economico per cui l'unità di produzione umana è appunto un numero insignificante ha il potere di farti credere indispensabile. Dal lavoro non puoi allontanarti un mese. Al solo pensiero ti senti in colpa e sei sicuro che al ritorno gli altri saranno andati avanti, sarai rimasto inesorabilmente indietro. Tagliato fuori. Meglio non rischiare. Del senso di colpa cristiano, sappiamo tutti, essendovi immersi sin dalla prima formazione, quindi non vale la pena dilungarvisi.
Il risultato di privazione,la fabbricazione di senso, e la induzione al senso di colpa costituiscono un sistema di alienazione individuale e globale che ha come meccanismo centrale il depotenziamento della relazione complessa tra noi e l'esistente.
Contro questo lottiamo e ci impegniamo.
Si, ma come?
Spesso l'impegno civile è vissuto come una forma di privazione e di autoesclusione da ampi pezzi di vita altra. Quante volte abbiamo pronunciato, in maniera più o meno compiaciuta: “Da quando faccio politica non ho più amici al di fuori di quella cerchia”?
Più aumenta l'impegno più diminuiscono i piaceri che rendono la vita degna d'essere vissuta: godersi una passeggiata o un pranzo con calma, andare al cinema o ad una mostra, conoscere una persona senza guardare sempre l'orologio, viaggiare per conoscere. Riposare.
Si lavora dopo il lavoro, per preparare un documento o un intervento fino a notte tarda. Si passa da una privazione all'altra. Si lavora un numero di ore impressionante, riproducendo sotto forma di autosfruttamento, lo sfruttamento del nostro corpo che altrove contestiamo.
Quando ormai la nostra sfera privata coincide con la sfera pubblica del nostro impegno, la politica ci viene in soccorso salvandoci da pericolosi vuoti di senso.
La lotta con i compagni, la comunità di resistenti, gli amici dell'associazione, diventano la nostra unica famiglia. E lo fa così potentemente, con la scusa dei buono propositi, che non vediamo quanto sia povera una vita in cui alla molteplicità di sensi si sovrappone un'unica monolitica battaglia.

In casi estremi, ci troviamo e ci identifichiamo in comunità molto chiuse, ben recintate, come l'antifascismo militante di alcuni, per cui chi non fa parte dei nostri, è necessariamente un fascista o un parafascista. Ancora steccati, ancora divisioni, ancora privazioni che in circolo vizioso ci obbligano a ingrossare a dismisura il senso per noi vitale della battaglia che conduciamo.
E anche qui, anche per l'impegno politico, il senso di colpa agisce, eccome. A pensarci bene la forza di un movimento dovrebbe essere proprio quella di procedere al di là delle defezioni – temporanee, parziali, o definitive - dei singoli.
Eppure, non importa cosa ti gridi la vita in quel momento, sottrarti significherebbe non fare la tua parte, rallentare il cambiamento.
A fronte di questo ragionamento, mi chiedo dunque che senso abbia lottare per abbattere un sistema che si basa sugli stessi meccanismi con cui finiamo con l'identificarci durante la lotta.
Se la politica non coincide con la vita, a cosa stiamo sacrificando parte sostanziale dei nostri anni migliori?
Come possiamo affermare un mondo più umano, parlare di decrescita, se noi per primi ci dimentichiamo dei nostri ritmi e delle nostre stagioni interiori per accelerare forsennatamente sulla strada dell'impegno, travolgendo incuranti o inconsapevoli la nostra stessa speranza di vivere già oggi una vita più degna di essere vissuta?
E come pensiamo di leggere adeguatamente il reale, se il mondo per cui e su cui facciamo politica si riduce gradualmente ma inesorabilmente al piccolo recinto di militanti e amici politicamente coscienti e impegnati, oppure avversari e nemici altrettanto politicamente coscienti e impegnati, che per forza di cose e di numeri sono solo una piccola parte della comunità complessa in cui viviamo?
Del punto di rottura e di non ritorno di questo genere di militanza e di come riempirla di ritmi vitali e di respiro animale, mi piacerebbe se ne parlasse di più.

martedì 21 febbraio 2012

E' grazie a Nevermind se noi trentenni imbolsiti poghiamo ai matrimoni


La maglietta l'avevo ordinata via posta chissà da quale catalogo musicale. Era un capolavoro del kitsch, ma che ne sapevo io a tredici anni del kitsch?
Al centro c'era una stampa enorme di Kurt Cobain in ginocchio con il suo leggendario ciuffo sopra un occhio e la chitarra piantata per terra in verticale, come la bandierina degli americani sulla luna, solo che lui la stava piantando sul pianeta discografia dei 5 continenti.

Dalle sue spalle partivano delle ali disegnate che arrivavano nei pressi delle ascelle di chi indossava la maglietta, cioè io. Tutto intorno, su sfondo bianco, erano disegnati simboli vari contenuti nei libretti degli album dei nirvana. Insomma, un baraccone ambulante.
Ma io la mettevo addosso, andavo a scuola e mi sembrava di essere il più cazzuto di tutta la classe.
Sono passati vent'anni da quando i Nirvana hanno pubblicato Nevermind e diciassette da quando Kurt Cobain si è sparato in faccia, spingendomi al lutto per una settimana, al primo anno di liceo.
Che volete che vi dica? Per noi foruncolosi in impetuoso passaggio adolescenziale nei primi anni Novanta, Nevermind era l'album perfetto. Non ci sentivano stronzi a prenderci a spallate saltellando l'uno contro l'altro. A dire il vero, mi sono anche un po' commosso quando di recente a un matrimonio di un mio caro amico dell'adolescenza, tutti imbolsiti, in maniche di camicia e stretti al collo da cravattini giusti, ci siamo messi a pogare appena è partita Smell like teen spirit. Sapeva di malinconia da sopravvissuti, tipo i nostri padri che cacavano il cazzo con i beatles, mentre noi volevamo sentire solo Lithium chiusi nella nostra stanza.
Insomma, io imparavo l'inglese traducendo i testi dei Nirvana e idolatravo Kurt Cobain, poster, magliettine e accessori inclusi. Una volta avevo registrato uno dei loro ultimi concerti mandati in diretta da radio 1, mi pare. Dal palaghiaccio di Marino, Roma, ricordo perfettamente. Avevo deciso di nobilitare la cassetta facendole una copertina con foto dei Nirvana a colori e con nessuna destrezza mi spruzzai la colla attak, quella che tre secondi e sei spacciato, in un occhio. Così, per dire che ascoltare i Nirvana era in un certo qual senso rischioso.
Quell'album, Nevermind, fu una bomba piazzata sotto il culo dei Guns'n'roses e di tutti quegli sculettanti rockers glamour che devo dire pure mi piacevano.
Con Cobain gli sfigati, i disadattati, quelli che un giorno avremmo chiamato nerd, erano diventati fighi.
Riempimmo i nostri armadi di orrende camicie di flanella a quadrettoni e pullover da far vomitare le tarme. Ci sentivamo parte di qualcosa che era uguale in tutto il mondo. Le feste in campagna ad Alcamo avevano diritto alla loro razione di rabbia e alienazione tanto quanto i sobborghi di Seattle o di Manchester.
Entravi in queste case disadorne e trovavi in giardino improvvisate cover band grunge. In una ci cantava Alessio che ora ha messo su un gruppo stile cantautori orchestrati, e non so perché, come la vita ti porti in luoghi imprevisti mi diverte tanto. Nel senso che noi in quegli anni ci avremmo sputato sopra a gente come De Gregori, De André, Battiato e se fosse esistito pure a Viniciocapossela. Dove non c'era riverbero, non c'era verità. Punto.

Stavamo nella periferia della periferia dell'Italia ma facevamo parte di un movimento, con tanto di fazioni e correnti. Chi stava con i Nirvana, chi con i Pearl Jam, chi con gli Smashing Pumpkins, o i Soundgarden, chi con gli Alice in Chains. Ma la lotta vera era tra i primi due. Chi diceva “Eddie Vedder ha una voce più bella, i pergem sono più bravi tecnicamente” aveva ragione, ma diceva una stronzata.
Mi ero da subito schierato con Cobain. Ecco allora come ora, quello che m'importa di una canzone, di un libro, di un film, è che sia roba viva, chi se ne fotte delle sbavature.
E Vedder era un figlio di papà, uno che c'era da giurarsi non s'era mai fatto in vena, che ne sapeva lui dello spleen e del vuoto e della bile che sputava Kurt?
E non era un dettaglio. Una volta avevo trovato, in campagna mi pare, un ossicino, forse di un cane.
Lo avevo portato a casa, lo avevo pulito, di nascosto da mia madre che mi avrebbe gridato di gettarlo imparanoiata dai germi, e lo avevo dipinto di rosso e blu. Su un lato avevo scritto “I hate myself and I want to die”, che era anche il titolo provvisorio di In utero.
Ogni tanto aprivo il cassetto dove lo avevo nascosto e me lo rigiravo tra le dita. Era una cosa carbonara, al pari delle poesie disperate che scrivevo per gioco, anche se io le trovavo una cosa serissima. Mi ricordo che mi piaceva un casino la parola apatia, la mettevo dappertutto.
A proposito di In utero, i fan dei Nirvana si dividevano in chi preferiva Nevermind e chi quest'altro.
Alcuni si ostinavano a preferire Bleach, il primo sporchissimo album, ma erano i soliti rifondaroli con la compulsione alla minoranza.
I più snob preferivano In utero a Nevermind, perché dicevano che quest'ultimo era troppo pop, troppo leccato.
Ed era vero che era troppo perfetto, in generale pure io preferisco le cose sporche. Per questo mi piace Vasco ad esempio, che è capace di mettere la parola Vomito in una splendida canzone oppure a parlare con una sorta di tenerezza di una relazione che la legge punirebbe con la galera.
Però Nevermind lo difendevo, perché era l'equilibrio perfetto, e non è possibile che ci si debba sempre sottrarre all'equilibrio. Insomma ogni tanto bisogna applaudire con la maggioranza e starsene zitti, senza ma e però. Che credo che abbia a che fare col crescere, ma in senso sano. Accettare la bellezza, ecco. E senza rompere il cazzo come se si fosse firmato un contratto con il dio delle zanzare.
Insomma, avevo sto poster di Kurt in camera, mi guardavo tutti i suoi video su Mtv, e volevo essere come lui. Credo che in quel pezzo di vita è iniziata la fascinazione per il mio contrario estetico. Se rinascessi vorrei essere magro, emaciato, biondo, stralunato. Cioè l'esatto opposto di me. Cioé Kurt Cobain.

Anche se lui era ancora da considerarsi integrato. Cobain era bello e indifeso, un pulcino spelacchiato. Era un tossico da passerella.
Il vero drogato sporco e irrecuperabile, che stava a Kurt come il punkabbestia sta all'alternativo, era Layne Stanley, il cantante degli Alice in Chains. Andava in giro con le magliette a maniche lunghe pure d'estate, perché si era bucato dappertutto. Ci dicevamo tra di noi che si bucava pure tra le dita delle mani.
Aveva la voce più bella e abissale che il rock abbia mai conosciuto. Quella di Kurt veniva dalle budella, e questo lo potevi ancora reggere. Quella di Layne arrivava dall'inferno, e francamente era troppo.
Quindi si è fatto fuori con una overdose da copione, e ci siamo accontentati di riascoltarlo di tanto in tanto, a piccole dosi.
Io intanto che avevo quattordici anni imparavo quelle due o tre canzoni dei Nirvana che mi facevano ritenere, chissà per quale assurda ragione, di avere un ottavo di ascendente in più con le ragazze. Figuriamoci.
Poi una mattina mi alzo alle sette e mezza e mentre mi bevo il mio latte caldo con caffè, l'insopportabile tg5 del mattino, quello che andava avanti a rullo per un'ora con edizioni da 15 minuti fatte di soli servizi, mi dice che il cantante del famoso gruppo Nirvana, Kurt Cobain (pronunciato alla capocchia di minchia, ma d'altronde mi sarei stupito del contrario) si era ucciso sparandosi un colpo in faccia. Fine della storia.

Cioè ci puoi argomentare quanto vuoi intorno, e smanettarti il cervello leggendo gli opinionisti che parlano di vuoto, successo, frustrazione e adolescenza, ma Kurt Cobain si era fatto schizzare il cervello sul parquet della sua casetta con tetto spiovente di Seattle. E ora lo potevi vedere tagliato a metà dalla finestra, grazie al potente zoom di un paparazzo americano, sdraiato nel salotto. Una mano, una gamba e un piede. Si è sparato in jeans e con addosso delle scarpe tipo Converse. Casual, e in questo oggi ci vedo una certa coerenza. Insomma, io mi sarei messo l'abito buono, per dire.
Nella lettera finale diceva “meglio andarsene con una fiammata che spegnersi lentamente”.

Confesso che non mi è mai piaciuta questa frase, mi sapeva di Jim Morrison, e io odiavo Jim Morrison.
Però era la frase che chiudeva quella lunga adolescenza sonora che era stato il grunge, smembrava le nostre tribù musicali, ci sfilacciava. Mi piacerebbe ora dire che con quel botto finiva la nostra adolescenza, sarebbe perfetto. Ma in realtà avremmo dovuti soffrire e vedere i nostri tratti somatici mutare e umiliarci ancora per anni. Avremmo abbandonato i Nirvana e quegli altri lentamente, come con un'amicizia che non ha più nulla da darti ma che per rispetto ammazzi con dose omeopatiche. Ci saremmo diplomati, saremmo andati a studiare fuori, e avremmo scoperto i Radiohead.
Belli, bellissimi, bravi, inarrivabili.

Ma i Nirvana... che te lo dico a fare?


domenica 19 febbraio 2012

"Canto l'infelicità italiana". Intervista a PIERPAOLO CAPOVILLA (Teatro degli Orrori)


C'è un gruppo rock nella scena indipendente italiana che può permettersi di citare il poeta Majakovskij e l'attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa nelle sue canzoni e allo stesso tempo fare da anni il tutto esaurito ai concerti.
Si chiama Il teatro degli orrori, esplicito rimando al teatro della crudeltà di Antonine Artaud, e la sua mente, nonché l'autore delle liriche è un personaggio fuori dal comune, Pierpaolo Capovilla.
Quarantacinquenne veneziano, dall'aria vissuta e gli occhi glaciali, dopo un discreto seguito negli anni '90 col suo primo gruppo, One dimensional man, ha raggiunto il successo nel mondo dell'indie rock con il secondo album del Teatro degli orrori, A sangue freddo, nel 2009. Ma solo un anno fa ha deciso di lasciare il lavoro di cameriere in un ristorante di Venezia. Non è l'unica stranezza di un maudit che vive la musica come strumento politico e poetico, ma poi alle urne sceglie il riformismo un po' grigio del Partito democratico. E che si diverte a dedicare un velenoso verso ad Asor Rosa nel suo nuovo album  Il mondo nuovo.


State per pubblicare un concept album sui migranti. Una scelta insolita...
Credo che la questione dei migranti siano oggi il paradigma della società in cui viviamo. Attraverso le storie dei migranti, parlo di noi, dell'Italia. Mi interessa il lato più intimo, più privato, proprio perché voglio toccare la parte più viva e trovare quello di me che c'è nell'altro.
Il privato è politico anche nella musica?
Io ho sempre interpretato il mio mestiere come un mestiere profondamente politico. Il nostro è un disco di lotta, che ha alla base in concetto di uguaglianza. Parlare di migranti oggi in Italia è come mettere il dito nella piaga dei pregiudizi, della xenofobia e dell'egoismo di questo paese, dopo vent'anni di edonismo berlusconiano.
Riecco lo spettro di Silvio.
Non è solo colpa sua, c'è  anche una classe politica pessima e una società civile che si gira dall'altra parte.
Oggi in Italia è raro che un gruppo rock faccia testi esplicitamente politici.
É vero, soprattutto nel settore musicale mainstream, ma nella scena indipendente sta crescendo una certa attenzione alla critica sociale. Cito un nome per tutti, Vasco Brondi delle Luci della centrale elettrica. Sono convinto che si possa fare musica leggera, perché il rock essendo popolare e di largo consumo rientra nella musica leggera, contribuendo alla rimodulazione dell'immaginario collettivo, che oggi è forse la categoria politica più importante. Da lì partire per cambiare le cose.
I tuoi pezzi strabordano di citazioni.
La mia ambizione più grande è provare a mettere un po' di poesia nella musica rock. Nel disco ho inserito citazioni in maniera sistematica, quasi strategica, dei grandi lirici del '900. in particolare del poco conosciuto Stratanovskij, del grande Esenin e di Brodskij, che tanto amava l'Italia e che è seppellito nella mia Venezia.
Le metti per fare il figo?
La funzione di tutte queste citazioni è quella di voler divulgare la cultura. Può far sorridere, ma io ce l'ho veramente questa vocazione, e considero la cultura molto più importante di tanti altri aspetti. Poi c'è da dire che queste citazioni subiscono nei miei pezzi una potente manipolazione e ricontestualizzazione che le trascina nel “qui e ora” e ne fa implodere o esplodere il significato. Credo nessuno si rivolterà nella tomba.
Citi soprattutto poeti.
Amo la poesia. Sono convinto che sia il fulcro di tante cose, quello che si avvicina più alla verità, anche se so bene che le verità sono tante e non si lasciano mai inquadrare.
E infatti lo scorso anno hai portato in giro un reading su  Majakovskij. Come hanno reagito i ventenni che non lo conoscevano?
Il successo della tournè su Majakovskij è stato sorprendente. Al teatro di Perugia siamo riusciti a far commuovere le vecchiette, a Napoli lo abbiamo fatto in un parcheggio a due passi da Scampia. E poi abbiamo girato anche nei centri sociali. Al Conchetta di Milano il pubblico è rimasto in un silenzio religioso per un'ora e venti, la durata dello spettacolo.
Nelle tue canzoni c'è sempre una tensione verso qualcosa che manca. Si può dire che i tuoi dischi sono in questo senso “utopici”?
L'utopia è stata e può essere una grande forma del progresso, ma in un certo senso il nostro disco è anche distopico, per citare Huxley. E cioè è vero che un mondo migliore è possibile, ma un mondo peggiore è oggi infinitamente più probabile.
Il pezzo Rivendico sembra il manifesto della tua poetica. Il ritornello dice “rivendico l'amore”. Mischi spesso parole intime a termini politici.
Ma il rapporto d'amore tra un uomo e una donna, o tra un uomo e un uomo e una donna e una donna, che cos'è se non un rapporto sociale? In questi rapporti intimi si esprimono ingiustizie, frustrazioni vissute a livello sociale. Io li uso come espediente per parlare d'altro.
E spesso le storie di cui parli raccontano di persone  schiacciate dal lavoro, che fanno una vita che non è la loro.
L'infelicità diffusa è esattamente ciò che viviamo in Italia.
Tu sei quello che normalmente si definisce un “animale da palco”.
A me interessa il concerto nella sua evenemenzialità, come evento. Viviamo nella società dello spettacolo dove, per dirla con Debord, lo spettacolo è la più raffinata delle merci. Ma per come la vedo io, un concerto non è una rappresentazione, ma un momento di vita in cui la mia esistenza resuscita, in cui amo e mi sento vivo. E credo che riguardi anche quelli che vengono a vederci e partecipano ad un momento in cui sentirsi finalmente vivi. Poi tornano a casa davanti alla tv, in fabbrica a menar bulloni o in ufficio a far di conto, ed è lì che crepano minuto per minuto, giorno per giorno, attraverso la routinizzazione che rende la vita insulsa.
Per i tuoi detrattori sei uno che si prende troppo sul serio.
Io mi prendo sul serio nella misura in cui credo in quello che faccio. La dimensione artistica diventa cultura soprattutto nella dimensione letteraria. Dopodiché, lo so che sono un clown, mi sento un pagliaccio, del resto ho più di quarant'anni e sto ancora sul palco a fare il rockettaro.
Nella scena indipendente italiana, sei uno dei pochi che non punta tutto sulla carta dell'autoironia, come fanno ad esempio Dente e Brunori Sas, che mi fanno pensare un po' alla generazione dei trentenni che scherza su tutto e si dimentica di agire.
 È vero che nel mio lavoro manca l'ironia, preferisco il dramma e la tragedia. Dente è un ragazzo intelligentissimo, che fa del disimpegno la sua bandiera, però io non la penso così. Quello che veniva definito cantautorato fino alla metà degli anni '80, erano canzoni popolari, d'amore, con parole forti, legate intimamente alla realtà sociale. E questo loro lo cercavano, lo volevano. Io spero che il nostro lavoro possa in qualche maniera inserirsi in quella tradizione, pur nel rinnovamento.
Che ne pensi dei movimenti degli ultimi anni, soprattutto di quelli che adottano forme di protesta violente, come nel caso del 15 ottobre a Roma?
Stavo leggendo un bellissimo libro del filosofo sloveno Slavoj Žižek, La violenza invisibile, in cui lui distingue la violenza in soggettiva, oggettiva e simbolica. Quella soggettiva è quella che io individuo posso esercitare nei confronti di un altro. L'oggettiva è quella dello stato, che impone un sistema basato sullo sfruttamento e sulla repressione. Quella simbolica è la violenza veicolata dai media. In questo momento specialmente, la violenza fa parte della nostra società, quindi io non me la sento di biasimare un ragazzo che viene colpito da questa violenza e preso dalla rabbia spacca tutto. A questo si aggiunga una seconda riflessione...
Quale?
Spesso si sente dire dai politici, “i giovani si sono disaffezionati alla politica, e per questo poi fanno casino”. Ma dietro i cappucci neri dei black block ci sono sin troppo spesso persone che la politica la vivono ogni giorni, ci sono i compagni dei centri sociali, come qui a Venezia, che si sbattono anche con i più poveri, che le notti più fredde vanno in giro a cercare i barboni per dargli una minestra calda e offrirgli un tetto per ripararsi. Questa è politica con tutte le lettere maiuscole. C'è un tale sentimento diffuso di insoddisfazione, frustrazione e infelicità, che è inevitabile sfoci nella violenza.  Se la politica non pensa alla vita delle persone, prima o poi queste si alzano e gridano.
Fai tanto il rivoluzionario ma poi sei iscritto al Pd, per molti tuoi fan è incomprensibile.
Mi sono iscritto al Pd nel 2009, sono stato trascinato da dei compagni di Venezia, e ho fatto un po' di militanza. Poi non mi sono più iscritto. A Firenze una giovane ragazza mi ha dato del fascista per questa cosa.  A diciotto anni ho votato per la prima volta Pci, oggi voto Pd. Non sono uno che cambia facilmente idea.
Si, ma perché non un altro partito a sinistra?
Perché sono convinto che il Pd sia l'unico partito che possa combinare qualcosa di significativo in questo paese. Il ceto politico, anche nella sinistra radicale, ha un attaccamento eccessivo nei confronti dei piccoli privilegi. Lo si vede nelle divisioni tra comunisti in piccoli partiti, che spesso rispondono più a logiche di interessi personali e di correnti che ad altro. Solo che così finisce come Guzzanti che imita Bertinotti, divertentissimo, per cui la sinistra si divide fino a diventare una serie di zanzare che si limitano a punzecchiare. Forse sono troppo pragmatico.
Nella canzone Rivendico, metti in bocca ad Asor Rosa le parole: “non ho niente da dire, tanto nessuno, ormai nessuno mi ascolta”. Cattivo.
Ho voluto giocare, non me ne voglia Asor Rosa, che è un grande critico letterario ma anche un intellettuale vetero marxista. Nella canzone, Pasolini rappresenta il passato, la nostra coscienza civile,  Žižek è il futuro, il filosofo più pericoloso dell'Occidente, come l'ha definito la stampa Usa. E Asor Rosa il presente, fatto di vetero marxisti che nessuno sta più ad ascoltare. Rappresenta il punto a cui sono gli intellettuali italiani, fermi, rigidi. Invece c'è bisogno di rinnovare il marxismo. Ma non volevo deridere Asor Rosa.
Invece nel primo singolo del nuovo album, Io cerco te, canti: “Roma Capitale, sei ripugnante, non ti sopporto più”. Questa la devi spiegare bene ai lettori romani.
Roma non è solo la capitale e l'unica vera metropoli italiana, ma è anche lo specchio della società italiana, sempre più individualista e infelice. È una frase ad effetto, che sta funzionando, tanto che qualcuno mi ha accusato di inneggiare al leghismo. Un caso di evidente analfabetismo politico. Poi è vero che Roma in sé è peggiorata, governata com'è da questi farabutti.


 intervista pubblicata sul settimanale Gli Altri 

giovedì 9 febbraio 2012

Il gabibbo e il cadavere del precario


La nausea che mi viene quando cominciano ad arrivare sulla mia bacheca facebook le battute a valanga su Monti e posto fisso è ormai quasi pari a quella che mi prende quando il premier o uno dei suoi se ne esce con una battuta sprezzante in pieno stile governo Berlusconi.
Seguono lettere del precario a Mario Monti, appelli indignati, flash mob e last but not least, le famigerate invitate in trasmissione.
Chiamano l'amico che si sbatte tutti i giorni per organizzare l'incazzatura e trasformarla in politica e gli chiedono: “mi serve una ragazza, dai 20 ai 30, precaria, con una storia di mille lavoretti malpagati alle spalle, e possibilmente un'insostenibile voglia di maternità frustrata. Entro oggi a pranzo ho bisogno del nome”.

Da quando è stato scoperto dalle faine televisive, cioè con un decennio buono di ritardo, il precario trattato come un qualsiasi fattoide è diventato uno dei feticci tv dei nostri giorni.
Assieme al metalmeccanico, a cui Santoro mette a disposizione il suo tinello pubblico per gridare arrabbiato, o come il gabibbo, un pupazzo di gommapiuma rossotinta che dovrebbe insegnare il buon giornalismo a quegli altri.
Nel caso del precario, la bidimensionalità un tempo catodica impone un basso profilo, aria piagnucolosa e blande frasi di rivendicazione, mal tollerate dal presentatore che preferisce il racconto della propria sfiga personale. Al precario in tv è assegnata la sorte di quattrocchi dei puffi: un cacacazzi vittimista che prima o poi verrà lanciato lontano dal villaggio per stare un po' in santa pace.

Io invece penso che il discorso salutare che i precari hanno cominciato a fare rispetto il livello minimo di dignità economica del loro lavoro, andrebbe traslato anche rispetto alla rappresentanza mediatica.
E cioè, la forza dello sfruttamento e dei livelli miseri di paga e di condizioni lavorative risiede nel fatto che c'è sempre qualcuno disposto a farlo se tu non vuoi. Ma se si stabilisce tutti insieme, come ad esempio cominciano a fare i precari dei giornali, che meno di tot a mansione preferisco non lavorare, allora a poco a poco i datori di lavoro dovranno migliorare le offerte.
E insomma, dovremmo cominciare a rifiutarci di andare in tv per fare il gabibbo della sfiga precaria. Dovremmo contrattare la possibilità di parlare di politica e di politiche. Altrimenti lasciare l'amica o l'amico in redazione senza il loro cadavere di precario (parafrasando Amore tossico).
Oppure dire di sì, che faremo i piagnoni, e poi parlare di reddito minimo garantito, di diritto all'abitare, di legalizzazione delle droghe, di reale contrasto alle mafie.

Però, per fare questo passaggio, bisogna che anche noi usciamo dagli automatismi pavloviani che ci spingono a rispondere con indignazione o con ipertrofia spinoziana (nel senso del sito satirico, non del filosofo) a ogni stronzata che dicono Monti o la Fornero.
Ad esempio, possibile che nel 2012 a uno che dice il posto fisso è monotono, si debba rispondere compatti: “No! Il posto fisso è una figata pazzesca!”?
A me puzza di sfiga e retroguardia. Mi sembra più vivo rispondere “dammi diritti e continuità di reddito, e ti assicuro che sarei il primo a mandarlo a fare in culo, il posto fisso”.

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lunedì 10 ottobre 2011

Di Siena che muore, dei fricchettoni senza facebook, dell'amore e di altri roditori


Tornare a Siena è sorprendermi nonostante la consuetudine che non mi abbandona.
Non mi si muove nulla dentro, quando la sera vedo spuntare da un vicolo laterale l'imponente torre del mangia e mi addentro nella piazza del Campo.
Della bellezza che toglie il fiato che mi colse diciottenne un giorno di sole di settembre di tredici anni fa, non c'è traccia.
Mi colpisce invece il giro che Antonio mi fa fare per le vie della città. Una per una mi mostra le attività che sono chiuse a causa della crisi. Due cinema, il Fiamma (sostituito da un supermecato) e il Moderno, che era bello grande e proiettava film di cassetta. Adesso è chiuso, con una pedana di legno alzata alla rinfusa sul portone. Ci faranno una banca a quanto pare. Poi mi dice Antonio che anche la libreria Ticci, una delle più antiche e belle, è chiusa. E un caffè letterario che ha resistito solo un anno.
La città degli universitari muore, forse a causa dell'enorme buco che la gestione degli scorsi anni ha lasciato. Il gioiellino da primato nelle classifiche annuali di Repubblica non è più sexy per i 18enni, che corrono ad iscriversi ad altre facoltà in altre città.

La cosa più penosa è entrare nel Palazzo San Galgano, sede di Lettere. Il ricordo di corridoi affollati e aule gremite dei mie anni universitari si scontra col vuoto desolato di oggi. Pochi ragazzi, che entrano ed escono dalla biblioteca, per lo più da soli.
Siena e la sua università non sono più il centro di niente.
L'aula computer è deserta, un tempo bisognava aspettare in coda. E i bagni, tutti liberi e con le stesse scritte oscene sui muri di un tempo. Anche un adesivo di una delle prime webradio antagoniste. Avanguardia andata a male. Incredibile penso, ed è un pensiero naif lo ammetto, come ciò che credi infinito, un giorno finisca. Io e Antonio ci diciamo con un misto di sollievo e senso di colpa che è stata una fortuna essere capitati nel periodo migliore di quell'ateneo, averne succhiato le energie più fresche, aver cavalcato l'onda migliore, quella che non ritorna.
Per fortuna in città ci vengo solo la sera o la mattina, per il resto sono ospite a casa di Antonio nel mezzo delle colline senesi. Con Cate hanno affittato a un prezzo stracciato un casolare disadorno in un posto bellissimo. Più bello di una cartolina.
Tra le vigne e piccoli boschetti.
Guardiamo il tramonto parlando di politica. Nessun contadino che vendemmi, sono arrivato con qualche giorno di troppo.
I ritmi della campagna mi strappano alle tossine della capitale. Mi allontanano dalle complicate bugie metropolitane, dal continuo ed estenuante parlarsi addosso, mantenendosi in un livello intermedio tra la concretezza delle cose e la speculazione pura. Un incessante sentirsi al centro del mondo, un ragionare di strutture e sovrastrutture, di politica e movimenti, di diritti e corpi e attraversamenti e specificità, che col vorticare progressivo perdono contatto con quel poco di vita vera che ci è concessa dal nostro ciclo di nascita crescita e morte.
Per questo trovare un topolino di campagna aggrappato alla mia scarpa prima di addormentarmi, cercare di ucciderlo prima, poi catturarlo e lasciarlo in campagna, mi sembra un gesto semplice e vero.

Come lasciarmi massacrare ogni pomeriggio, imparando i loro ritmi e l'esordio quotidiano sulla mia pelle, delle zanzare tigre.
Poi il freddo di un fiume gelato e asciugarsi al sole.
Gli amici di Antonio sono quasi tutti studenti o laureati in antropologia. Molti veronesi, alcuni sardi.
Vivono sparsi per le campagne senesi, in diversi casolari. Passano le sere cenando una volta da alcuni una volta da altri.
In questo periodo vendemmiano, vanno a letto presto. Vanno a letto presto comunque, dice sconsolato Antonio, che un po' di ritmo in più lo gradirebbe.
Nessuno di loro ha Facebook. Non gli serve, incredibile ma vero.
Una sera organizziamo una festa di laurea nel casolare dove stiamo. Arrivano tanti ragazzi e tante ragazze. Balliamo e beviamo fino a notte tarda. Ma nessuno fa foto, e nessuno il giorno dopo mi taggherà su facebook. Ci penso e mi sembra strano, quasi tornare indietro nel tempo. Così come mi stona l'idea che tornando a Roma non potrò aggiungere tra gli amici di social network nessuna delle belle ragazze che ho conosciuto.
Mi prende un'istantanea malinconia e un dolce fatalismo. Tutto è qui e ora, e va bene così.

Durante la festa mi accorgo di un'altra differenza rispetto alla metropoli. Non c'è la voracità sessuale delle serate alcooliche nei locali bui della città, non ci si studia con particolare desiderio. Le fidanzate sono realmente fidanzate, e non è una copertura in attesa di qualcosa di meglio, o di un grammo in più di autonomia notturna. Le single sembrano avere altri tempi.
Mi manca l'ambiente in cui so muovermi meglio, ma non so dire se sia meglio la nevrosi seduttiva di Roma o la calma placida, che un po' sa di rinuncia, di questo posto.
Un giorno vengo invitato a pranzo da Annalisa. La trovo nella casa nuova col compagno e il figlio di meno di un anno. Eugenio ha uno sguardo serio e curioso, ride poco ma quando lo fa illumina.
Nella familiarità di alcuni gesti di Annalisa viene in superficie il passato passato insieme.

Mi vengono da pensare due pensieri.
Il primo è che quando un rapporto finisce bene, quando se ne gestisce con rispetto il distacco, si salva tutto. E quando si salva tutto, negli anni rimane il sapore dolce della felicità vissuta, tanto importante nei momenti in cui lo sconforto porta a pensare quelle fesserie del genere “l'amore non esiste, e comunque finisce sempre male”. A volte invece, basta volersi bene davvero, finisce sì, ma splendidamente.

Il secondo pensiero che penso si ferma nella sensazione di sollievo che vedo osservando Annalisa col bimbo in braccio.
La vita scorre, la gente cresce, invecchia, mette al mondo figli. In un'altra epoca, in un altro luogo forse, questa cosa dovrebbe spaventarmi, farmi indietreggiare. Nel presente sospeso e infinito che viviamo noi giovani non più tanto giovani, è un sollievo sapere che la vita non si ferma, che oltre gli aperitivi e i lavori finiti presto e male alle due di notte, c'è qualcosa di più fondo e lucente.
L'ultima sera c'è un concerto di Brunori Sas alla festa di Sel. Decido di restare invece di partire nel pomeriggio, e il mio cambio di programma viene premiato.
Ci sono tutti, la mia vecchia Siena e i nuovi conosciuti n questi giorni.
Tutti bevono e sorridono. I vecchi conoscenti soprattutto. Gente come me che invece di partire è rimasta. Io che ho fatto un'altra scelta. Tante vite mie parallele che mi parlano e sorridono.

Non ci diciamo molto, non ci chiediamo molto. Ed è un conforto questo non insistere sul mistero della vita dell'altro, questo accettare che dieci anni non si recuperano in due battute.
Il cantante, che ha studiato anch'esso a Siena, canta la sua nostalgia di chi ha vissuto gli Ottanta da bambino, e persino pisciare dietro il laghetto del parco, intontito dall'alcool, mi sembra bellissimo.
I cigni del laghetto dormono composti. Sono uguali che da svegli, solo non si muovono. Come tante persone che a guardarli distratti saresti pronto a giurare che sono sveglie.
Il giorno dopo esco di casa per prendere il pullman per Roma, finalmente sono pronto a tornare. Nelle vigne di fronte al casolare degli uomini lavorano silenziosamente. La vendemmia, era solo questione di aspettare, come spesso accade.
Sul pullman, vicino al vetro che mi divide dalle colline che fuggono provo ad elencare gli animali che ho visto in questa settimana.
Insetti, falene, ragni, gatti, cani e un istrice enorme nella notte campestre. Cavalli, mucche, un fagiano che si alza in volo mentre osservo muto le vigne e quasi non mi prende un colpo. Scoiattoli, volpi, pesci. E naturalmente un topo. Il topo. Penso al topino di campagna aggrappato alla mia scarpa che mi guardava fisso. Ancora adesso non ho capito se quegli occhi bui significavano “Non andare” oppure “Portami con te”.
Per fortuna non l'ho preso quando ho tentato di schiacciarlo con una piantana di metallo.

martedì 19 aprile 2011

Ventimiglia, provincia di Schengen




Le cronache di questi giorni raccontano di migliaia di tunisini ammassati a Ventimiglia, in attesa di poter varcare l'agognato confine e sentirsi finalmente in terra di Francia. Sul loro passaggio, è in atto un duro braccio di ferro tra i francesi e il governo italiano.
A un certo punto, uno dei due paesi ha tirato fuori la parolina magica “Schengen”. Probabilmente è stata l'Italia per prima: “La Francia rispetti gli accordi di Schengen e lasci passare i profughi”.
Schengen, Schengen. Quando io sento questa parola penso a undici anni fa. Al dicembre di undici anni fa per la precisione. Era il 10 dicembre del 2000, e c'era un treno bloccato a Ventimiglia. Mille e cinquecento persone ferme non per un incidente sulla linea, e manco per una tormenta di neve improvvisa, ma per Schengen. O meglio, per la sospensione del trattato di Schengen. Fermo a Ventimiglia insieme agli altri mille e cinquecento, era la prima volta che sentivo parlare di quel trattato. Stavamo andando a Nizza a manifestare contro il trattato europeo che sarebbe dovuto stare alla base di una Costituzione europea. Quello che qualche giornale cominciava a chiamare il popolo di Seattle e che nel giro di sette mesi sarebbe diventato il popolo di Genova si era messo in moto, affittando un intero treno per la Francia, con l'intenzione di sabotare una carta che delineava il futuro dell'Europa unita su basi strettamente economiche. Nessun accenno ai diritti, civili e sociali.
A Nizza, chi era riuscito ad arrivare da tutta la Francia e dal resto d'Europa, aveva messo in effetti a dura prova la tenuta della piazza da parte delle forze dell'ordine.
Noi eravamo bloccati alla frontiera. Il treno, organizzato da Rifondazione comunista, nella sua fase più splendente, si chiamava Global Action Express, se non ricordo male. Tra di noi, secondo le forze dell'ordine francesi, potevano esserci pericolosi terroristi.
Avevamo marciato lungo i binari fino ad occupare la frontiera per un'intera notte. Fu lì che sentì per la prima volta suonare la pizzica che per anni avrebbe ammorbato le mie serate estive universitarie.
Di quella notte ricordo anche la bandiera di Che Guevara alzata alta sul pennone di 30 metri al posto di quella Italiana al confine con la Francia. E migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa, schierati a testuggine di fronte al tunnel che portava a Nizza, capaci di farci paura solo a guardarli.
E poi il giorno dopo i primi limoni girare tra i manifestanti un attimo prima delle cariche, e i miei primi lacrimogeni respirati durante la fuga dai manganelli.
Tornammo indietro senza un nulla di fatto, a parte qualche titolo sui giornali.
Delle battaglie del movimento di Genova tante sono state perse, ma qualche vittoria la possiamo rivendicare dieci anni dopo. A partire dall'imposizione nell'agenda mediatica e politica di parole come globalizzazione, decrescita, riscaldamento globale, annullamento del debito, consumo critico, energie rinnovabili, democrazia partecipativa.
Quella di Ventimiglia, invece, fu una sconfitta, e una delle più scottanti. Imparavamo allora come Schengen imponesse un principio sacro di libera circolazione valido solo per le merci. Per le persone, si sarebbe tornato indietro a prima di Maastricht senza batter ciglio per ogni fastidioso scricchiolio del modello liberista. Mercato, non diritti. Merci, non persone.
E oggi, clandestini, non persone. Di quella sconfitta vecchia undici anni, vedo oggi gli effetti disumani in tutta la loro potenza. E capisco appieno, quando avevo quasi scordato, il valore altissimo di quel tentativo di costruire l'Europa nuova su fondamenta chiamate diritti e non solo sui pilastri scricchiolanti dell'economia.