lunedì 10 ottobre 2011

Di Siena che muore, dei fricchettoni senza facebook, dell'amore e di altri roditori


Tornare a Siena è sorprendermi nonostante la consuetudine che non mi abbandona.
Non mi si muove nulla dentro, quando la sera vedo spuntare da un vicolo laterale l'imponente torre del mangia e mi addentro nella piazza del Campo.
Della bellezza che toglie il fiato che mi colse diciottenne un giorno di sole di settembre di tredici anni fa, non c'è traccia.
Mi colpisce invece il giro che Antonio mi fa fare per le vie della città. Una per una mi mostra le attività che sono chiuse a causa della crisi. Due cinema, il Fiamma (sostituito da un supermecato) e il Moderno, che era bello grande e proiettava film di cassetta. Adesso è chiuso, con una pedana di legno alzata alla rinfusa sul portone. Ci faranno una banca a quanto pare. Poi mi dice Antonio che anche la libreria Ticci, una delle più antiche e belle, è chiusa. E un caffè letterario che ha resistito solo un anno.
La città degli universitari muore, forse a causa dell'enorme buco che la gestione degli scorsi anni ha lasciato. Il gioiellino da primato nelle classifiche annuali di Repubblica non è più sexy per i 18enni, che corrono ad iscriversi ad altre facoltà in altre città.

La cosa più penosa è entrare nel Palazzo San Galgano, sede di Lettere. Il ricordo di corridoi affollati e aule gremite dei mie anni universitari si scontra col vuoto desolato di oggi. Pochi ragazzi, che entrano ed escono dalla biblioteca, per lo più da soli.
Siena e la sua università non sono più il centro di niente.
L'aula computer è deserta, un tempo bisognava aspettare in coda. E i bagni, tutti liberi e con le stesse scritte oscene sui muri di un tempo. Anche un adesivo di una delle prime webradio antagoniste. Avanguardia andata a male. Incredibile penso, ed è un pensiero naif lo ammetto, come ciò che credi infinito, un giorno finisca. Io e Antonio ci diciamo con un misto di sollievo e senso di colpa che è stata una fortuna essere capitati nel periodo migliore di quell'ateneo, averne succhiato le energie più fresche, aver cavalcato l'onda migliore, quella che non ritorna.
Per fortuna in città ci vengo solo la sera o la mattina, per il resto sono ospite a casa di Antonio nel mezzo delle colline senesi. Con Cate hanno affittato a un prezzo stracciato un casolare disadorno in un posto bellissimo. Più bello di una cartolina.
Tra le vigne e piccoli boschetti.
Guardiamo il tramonto parlando di politica. Nessun contadino che vendemmi, sono arrivato con qualche giorno di troppo.
I ritmi della campagna mi strappano alle tossine della capitale. Mi allontanano dalle complicate bugie metropolitane, dal continuo ed estenuante parlarsi addosso, mantenendosi in un livello intermedio tra la concretezza delle cose e la speculazione pura. Un incessante sentirsi al centro del mondo, un ragionare di strutture e sovrastrutture, di politica e movimenti, di diritti e corpi e attraversamenti e specificità, che col vorticare progressivo perdono contatto con quel poco di vita vera che ci è concessa dal nostro ciclo di nascita crescita e morte.
Per questo trovare un topolino di campagna aggrappato alla mia scarpa prima di addormentarmi, cercare di ucciderlo prima, poi catturarlo e lasciarlo in campagna, mi sembra un gesto semplice e vero.

Come lasciarmi massacrare ogni pomeriggio, imparando i loro ritmi e l'esordio quotidiano sulla mia pelle, delle zanzare tigre.
Poi il freddo di un fiume gelato e asciugarsi al sole.
Gli amici di Antonio sono quasi tutti studenti o laureati in antropologia. Molti veronesi, alcuni sardi.
Vivono sparsi per le campagne senesi, in diversi casolari. Passano le sere cenando una volta da alcuni una volta da altri.
In questo periodo vendemmiano, vanno a letto presto. Vanno a letto presto comunque, dice sconsolato Antonio, che un po' di ritmo in più lo gradirebbe.
Nessuno di loro ha Facebook. Non gli serve, incredibile ma vero.
Una sera organizziamo una festa di laurea nel casolare dove stiamo. Arrivano tanti ragazzi e tante ragazze. Balliamo e beviamo fino a notte tarda. Ma nessuno fa foto, e nessuno il giorno dopo mi taggherà su facebook. Ci penso e mi sembra strano, quasi tornare indietro nel tempo. Così come mi stona l'idea che tornando a Roma non potrò aggiungere tra gli amici di social network nessuna delle belle ragazze che ho conosciuto.
Mi prende un'istantanea malinconia e un dolce fatalismo. Tutto è qui e ora, e va bene così.

Durante la festa mi accorgo di un'altra differenza rispetto alla metropoli. Non c'è la voracità sessuale delle serate alcooliche nei locali bui della città, non ci si studia con particolare desiderio. Le fidanzate sono realmente fidanzate, e non è una copertura in attesa di qualcosa di meglio, o di un grammo in più di autonomia notturna. Le single sembrano avere altri tempi.
Mi manca l'ambiente in cui so muovermi meglio, ma non so dire se sia meglio la nevrosi seduttiva di Roma o la calma placida, che un po' sa di rinuncia, di questo posto.
Un giorno vengo invitato a pranzo da Annalisa. La trovo nella casa nuova col compagno e il figlio di meno di un anno. Eugenio ha uno sguardo serio e curioso, ride poco ma quando lo fa illumina.
Nella familiarità di alcuni gesti di Annalisa viene in superficie il passato passato insieme.

Mi vengono da pensare due pensieri.
Il primo è che quando un rapporto finisce bene, quando se ne gestisce con rispetto il distacco, si salva tutto. E quando si salva tutto, negli anni rimane il sapore dolce della felicità vissuta, tanto importante nei momenti in cui lo sconforto porta a pensare quelle fesserie del genere “l'amore non esiste, e comunque finisce sempre male”. A volte invece, basta volersi bene davvero, finisce sì, ma splendidamente.

Il secondo pensiero che penso si ferma nella sensazione di sollievo che vedo osservando Annalisa col bimbo in braccio.
La vita scorre, la gente cresce, invecchia, mette al mondo figli. In un'altra epoca, in un altro luogo forse, questa cosa dovrebbe spaventarmi, farmi indietreggiare. Nel presente sospeso e infinito che viviamo noi giovani non più tanto giovani, è un sollievo sapere che la vita non si ferma, che oltre gli aperitivi e i lavori finiti presto e male alle due di notte, c'è qualcosa di più fondo e lucente.
L'ultima sera c'è un concerto di Brunori Sas alla festa di Sel. Decido di restare invece di partire nel pomeriggio, e il mio cambio di programma viene premiato.
Ci sono tutti, la mia vecchia Siena e i nuovi conosciuti n questi giorni.
Tutti bevono e sorridono. I vecchi conoscenti soprattutto. Gente come me che invece di partire è rimasta. Io che ho fatto un'altra scelta. Tante vite mie parallele che mi parlano e sorridono.

Non ci diciamo molto, non ci chiediamo molto. Ed è un conforto questo non insistere sul mistero della vita dell'altro, questo accettare che dieci anni non si recuperano in due battute.
Il cantante, che ha studiato anch'esso a Siena, canta la sua nostalgia di chi ha vissuto gli Ottanta da bambino, e persino pisciare dietro il laghetto del parco, intontito dall'alcool, mi sembra bellissimo.
I cigni del laghetto dormono composti. Sono uguali che da svegli, solo non si muovono. Come tante persone che a guardarli distratti saresti pronto a giurare che sono sveglie.
Il giorno dopo esco di casa per prendere il pullman per Roma, finalmente sono pronto a tornare. Nelle vigne di fronte al casolare degli uomini lavorano silenziosamente. La vendemmia, era solo questione di aspettare, come spesso accade.
Sul pullman, vicino al vetro che mi divide dalle colline che fuggono provo ad elencare gli animali che ho visto in questa settimana.
Insetti, falene, ragni, gatti, cani e un istrice enorme nella notte campestre. Cavalli, mucche, un fagiano che si alza in volo mentre osservo muto le vigne e quasi non mi prende un colpo. Scoiattoli, volpi, pesci. E naturalmente un topo. Il topo. Penso al topino di campagna aggrappato alla mia scarpa che mi guardava fisso. Ancora adesso non ho capito se quegli occhi bui significavano “Non andare” oppure “Portami con te”.
Per fortuna non l'ho preso quando ho tentato di schiacciarlo con una piantana di metallo.

martedì 19 aprile 2011

Ventimiglia, provincia di Schengen




Le cronache di questi giorni raccontano di migliaia di tunisini ammassati a Ventimiglia, in attesa di poter varcare l'agognato confine e sentirsi finalmente in terra di Francia. Sul loro passaggio, è in atto un duro braccio di ferro tra i francesi e il governo italiano.
A un certo punto, uno dei due paesi ha tirato fuori la parolina magica “Schengen”. Probabilmente è stata l'Italia per prima: “La Francia rispetti gli accordi di Schengen e lasci passare i profughi”.
Schengen, Schengen. Quando io sento questa parola penso a undici anni fa. Al dicembre di undici anni fa per la precisione. Era il 10 dicembre del 2000, e c'era un treno bloccato a Ventimiglia. Mille e cinquecento persone ferme non per un incidente sulla linea, e manco per una tormenta di neve improvvisa, ma per Schengen. O meglio, per la sospensione del trattato di Schengen. Fermo a Ventimiglia insieme agli altri mille e cinquecento, era la prima volta che sentivo parlare di quel trattato. Stavamo andando a Nizza a manifestare contro il trattato europeo che sarebbe dovuto stare alla base di una Costituzione europea. Quello che qualche giornale cominciava a chiamare il popolo di Seattle e che nel giro di sette mesi sarebbe diventato il popolo di Genova si era messo in moto, affittando un intero treno per la Francia, con l'intenzione di sabotare una carta che delineava il futuro dell'Europa unita su basi strettamente economiche. Nessun accenno ai diritti, civili e sociali.
A Nizza, chi era riuscito ad arrivare da tutta la Francia e dal resto d'Europa, aveva messo in effetti a dura prova la tenuta della piazza da parte delle forze dell'ordine.
Noi eravamo bloccati alla frontiera. Il treno, organizzato da Rifondazione comunista, nella sua fase più splendente, si chiamava Global Action Express, se non ricordo male. Tra di noi, secondo le forze dell'ordine francesi, potevano esserci pericolosi terroristi.
Avevamo marciato lungo i binari fino ad occupare la frontiera per un'intera notte. Fu lì che sentì per la prima volta suonare la pizzica che per anni avrebbe ammorbato le mie serate estive universitarie.
Di quella notte ricordo anche la bandiera di Che Guevara alzata alta sul pennone di 30 metri al posto di quella Italiana al confine con la Francia. E migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa, schierati a testuggine di fronte al tunnel che portava a Nizza, capaci di farci paura solo a guardarli.
E poi il giorno dopo i primi limoni girare tra i manifestanti un attimo prima delle cariche, e i miei primi lacrimogeni respirati durante la fuga dai manganelli.
Tornammo indietro senza un nulla di fatto, a parte qualche titolo sui giornali.
Delle battaglie del movimento di Genova tante sono state perse, ma qualche vittoria la possiamo rivendicare dieci anni dopo. A partire dall'imposizione nell'agenda mediatica e politica di parole come globalizzazione, decrescita, riscaldamento globale, annullamento del debito, consumo critico, energie rinnovabili, democrazia partecipativa.
Quella di Ventimiglia, invece, fu una sconfitta, e una delle più scottanti. Imparavamo allora come Schengen imponesse un principio sacro di libera circolazione valido solo per le merci. Per le persone, si sarebbe tornato indietro a prima di Maastricht senza batter ciglio per ogni fastidioso scricchiolio del modello liberista. Mercato, non diritti. Merci, non persone.
E oggi, clandestini, non persone. Di quella sconfitta vecchia undici anni, vedo oggi gli effetti disumani in tutta la loro potenza. E capisco appieno, quando avevo quasi scordato, il valore altissimo di quel tentativo di costruire l'Europa nuova su fondamenta chiamate diritti e non solo sui pilastri scricchiolanti dell'economia.

giovedì 17 febbraio 2011

tHE kINg oF LiMbS


Sabato, 19 febbraio 2011

lunedì 14 febbraio 2011

Narrazioni e piazza. Come da anni si rinuncia a fare politica

Riflessioni a margini della manifestazione del 13 febbraio


È successo che a un certo punto, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, la comunicazione ha subito uno stop nella capacità di raggiungere le persone.
Nella mia memoria di bambino ci sono immagini di altri bimbi, neri, con la pancia gonfia e mosconi ronzanti attorno, che supplicano pietà.
Ci si accorse allora che spingere l'acceleratore sullo shock emotivo, in breve, provocava assuefazione e indifferenza nella gente. Erano gli anni in cui la società dello spettacolo si trasformava sempre più velocemente in società dell'informazione. Con l'arrivo di internet la pressione verso l'invasione totale dell'informazione nella quotidianità trovava finalmente la piattaforma ideale.

Il sovraccarico di informazione stordisce, la spinta verso l'empatia tramite utilizzo di immagini forti anestetizza.
È allora probabilmente in quella silenziosa transizione tra la metà degli anni Novanta e la metà dei Duemila che avviene il passaggio verso la narrazione come strumento pubblico di comunicazione.
Il modo migliore, l'unico efficace, per catturare l'attenzione delle persone è raccontargli una storia, fargliela vivere, come in una sorta di realtà virtuale ante litteram. E come fare?
I giornali puntano sulla cosiddetta tematizzazione: di un fatto non va narrato solo l'aspetto principale, ma tutto quello che gli ruota attorno, retroscena e aspetti privati inclusi. Gli articoli di “colore” che accompagnano le vicende politiche acquistano sempre più importanza a scapito della cronaca.
La pubblicità comincia a raccontare storie che nulla hanno a che vedere con le qualità del prodotto venduto, ma che puntano a generare in chi guarda un sentimento di identificazione e benessere.
Nella vita privata, la tematizzazione si incrocia con la spinta a trasformare i momenti più significativi del proprio vissuto in veri e propri eventi. Non c'è più un diciottesimo compleanno senza che parta il video riassuntivo della comune esperienza dedicato al festeggiato, stile clip Grande Fratello. Dei matrimoni ormai si registra e monta come un documentario anche il “making of”, i giorni di avvicinamento allo sposalizio, e così via.
Neanche la politica è immune a tutto questo. Una prova l'abbiamo avuta durante la manifestazione per le donne del 13 febbraio, utile e grandiosa per altri aspetti.
Sul palco vedo avvicendarsi una serie di donne che raccontano la questione della discriminazione di genere caratterizzandola con la propria esperienza. C'è la femminista d'antan, l'immigrata, l'attrice impegnata, la studentessa e anche l'uomo amico delle donne.
La complessità della questione, in perfetta linea con lo spirito del tempo, viene affidata alla tematizzazione, alla sovrapposizione di diversi punti di vista e soprattutto di diverse esperienze relativamente alla questione.
In realtà, si regalano al pubblico molteplici pezzetti della stessa superficie, senza mai approfondire il tema. Nulla si aggiunge alla generica richiesta di smetterla col maschilismo e all'urgenza di dire finalmente basta. Le organizzatrici della manifestazione e i relatori dal palco rinunciano alla possibilità di rivendicare qualcosa di concreto, di fare richieste, di porsi obbiettivi a breve scadenza, seppur grezzi e generici.
Il passo avanti rispetto a una prima fase di analisi (che in realtà non si può nemmeno chiamare analisi, ma esposizione esperienziale del problema) lascia il posto all'imperativo catartico. “Adesso facciamo un minuto di silenzio, poi io vi chiederò 'se non ora quando?' e voi risponderete con le mani alzate 'adesso'”. La necessità di agire, l'indicazione di una o più possibili direzioni su cui concentrare la propria voglia di partecipare (quote rosa nei Cda delle aziende, tra le candidature parlamentari? Leggi più adeguate per maternità e paternità?) viene sostituita dal simulacro dell'azione, il flash mob.
Si torna a casa con un appagamento a cui segue un indistinto senso di vuoto. Cosa abbiamo veramente fatto, oltre rivendicare una legittima parità di diritti tra uomo e donna?
Questo poco importa ai più. L'importante è essersi riconosciuti nella storia narrata in quella piazza e nelle ore successive nei giornali e nei siti internet sponsor dell'evento.
L'indignazione scatenata tramite l'induzione all'empatia fa venire in mente la scena finale del film Quinto potere di Sidney Lumet. Un presentatore televisivo indignato spinge il pubblico, dopo un'appassionata arringa, ad alzarsi in piedi e gridare: “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. Tutti si lasciano contagiare e gridano a squarciagola. C'è da scommetterci che in un'ipotetica scena successiva la cosa più rivoluzionaria che avrebbero fatto questi urlatori sarebbe stata ordinare una pizza al telefono, affamati dallo sforzo.
Questo perché, al contrario della retorica dei nostri giorni, le rivoluzioni non combaciano con il libero sfogo delle emozioni. Al contrario, perché la rabbia e l'indignazione si trasformino in reale spinta al cambiamento, le emozioni vanno imbrigliate, incanalate tramite la riflessione e la lucidità.
Senza queste, la rivoluzione francese o quella sovietica si sarebbero probabilmente risolte in devastazioni e saccheggi, così come alla liberazione dal nazifascismo sarebbe seguito un mero regolamento di conto con gli ex-oppressori. Il vecchio Monicelli, santificato dalle masse in agitazione di questi mesi, del resto, aveva detto nient'altro che questo: La speranza è una trappola, l'unica possibilità che abbiamo di cambiare le cose è essere disperati. Intendeva probabilmente non l'azione nichilista, senza uno scopo ultimo, ma l'azione che non è schiava delle facili emozioni, come appunto il sentimento di speranza che è così semplice a sgonfiarsi tanto quanto a gonfiarsi.

È forse possibile aggiungere un ulteriore tassello al depotenziamento che si autoimpone la politica della narrazione autoreferenziale.
Quando si punta tutto sulla capacità di sviluppare una storia credibile e coinvolgente, si chiede a chi ascolta non di capire né di discernere, ma di empatizzare ed emozionarsi. Gli si chiede di non annoiarsi. Ecco, io quando ho visto Il Padrino non mi sono annoiato, nemmeno quando ho visto Il Divo. Per questo mi sono piaciuti entrambi, ma non chiederei mai a nessun film di indicarmi una strada per migliorare la lotta contro la criminalità o la malapolitica. Il compito di un film o di un libro di narrativa è raccontarmi bene una storia.
Il compito della politica, anche nella forma delle manifestazione di piazza, è invece di aiutarmi ad intravedere una possibile via d'uscita dall'empasse in cui mi trovo, ci troviamo.  

martedì 8 febbraio 2011

Una lettera dalla Tunisia

Mi scrive Ahlam, una ragazza tunisina che ho incontrato a Tunisi questa estate. Ahlam mi concede queste poche righe post-rivoluzione. Sono le parole di speranza di chi è appena uscito da una dittatura lunga 23 anni.


"La mia vita è una vita in rosa, in tutti i sensi, perché io vivo in una società molto moderna, nonostante quel che significa essere musulmano. Noi giovani non abbiamo alcun limite, in tutti i settori. 

E' una bella prigione, comoda, lussuosa, colorata. Noi possiamo avere tutto, basta ignorare alcune cose, come la politica. 
La questione sta in una linea rossa da non superare. (C'è una frase usata spesso: anche le orecchie sono mature ...) E tutto questo in una società governata dalla polizia invece che dal popolo.
Ho sempre vissuto qui senza aspettarmi nulla, perché vedevo le nostra vite come foto e immagini di un film di infinita sofferenza, di torture e di un silenzio di pietra.
Oggi, dopo 23 anni di silenzio mortale bisogna decidere di mescolare le nostre parole, il nostro pane, con il nostro sangue, per la nostra libertà.
LaTunisia alla fine ha dato una casa al suo sogno il 14 gennaio 2011, nonostante quello che è stato partorito nel 1987.
Ora lasciamo al mondo arabo una lezione che dimostri la volontà del popolo".

lunedì 17 gennaio 2011

Tunisia. La rivoluzione dei gelsomini quando ancora non c'era

Agosto 2010. Il tramonto esplode arancio sui tetti bianchi di Sidi Bou Said. Marouen mi indica in lontananza un grosso palazzone nella pianura sotto la collina su cui ce ne stiamo fermi ad aspettare la sera.
E' il palazzo presidenziale. E' il simbolo del potere assoluto di Ben Alì, presidente della Repubblica tunisina.
Oggi leggo sui giornali che quel palazzo è stato al centro di uno scontro a fuoco tra esercito ed ex truppe presidenziali asserragliate dentro, poi dato a fuoco. Scorrono sotto i miei occhi immagini di grandi stanzoni anneriti dal fumo. Quello che è rimasto di Ben Alì e del suo potere, dopo la rivoluzione dei gelsomini. Così l'hanno chiamata l'ondata di proteste contro l'aumento dei prezzi di diversi generi alimentari, che per i giovani è stata la catapulta da cui lanciare la propria rabbia contro la corruzione del regime. Diversi morti, la polizia che spara sui manifestanti, poi Ben Alì che fugge all'estero. In questo momento il paese è nel caos, le prigioni vengono assaltate, i sindacati invitano i quartieri ad organizzarsi in comitati di autodifesa contro gli sciacalli.
Un'altro mondo rispetto alla Tunisia che ho visto ad agosto, solo cinque mesi fa.
Marouen è un ragazzo marocchino dagli occhi verdi, spigliato, parla un ottimo inglese e ci fa girare Tunisi, perché  come due di noi fa parte dei couch surfers, persone di tutto il mondo che si offrono ospitalità gratuita.
Nella grande spianata della Kasbah ci mostra tutti i palazzi governativi. Le bandiere rosse con la mezza luna della Tunisia sono tantissime. Inevitabilmente gli chiediamo informazione su Ben Alì, sebbene con molta discrezione.
il suo è un giudizio indecifrabile. Dice che si, per la stampa non c'è libertà, ma anche che Alì ha modernizzato il paese e ha dato molti diritti alle donne.
Questa storia delle donne ce la ripetono in tanti durante la nostra settimana di girovagare per il Paese.
A Kairouan, patria dei tappeti e quarta città santa islamica del mondo, al centro del paese, gli uomini sembrano avercela molto con il riguardo che ha il presidente nei confronti delle donne. Addirittura ha imposto che negli uffici pubblici non venga usato lo chador. Ci farebbe quasi simpatia, se il suo ritratto non ci rincorresse ossessivamente ad ogni passo. Il mezzo busto fotografico di Ben Alì con la faccia da Dracula e la pomata nei capelli è esposto in tutti i locali pubblici per legge (pizzerie, negozi di cianfrusaglie e bar inclusi) e copre intere facciate di palazzi con enormi poster stile Grande Fratello.
Quando chiedi con un sorriso complice un commento sul presidente, incontri sempre una risatina e uno sguardo al cielo, al massimo qualche frase smozzicata. Parlare proprio e apertamente, non si può. I muri sentono.
Una sera Marouen ci porta a conoscere altri couch surfers marocchini. Sono simpatici, aperti. La maggior parte delle ragazze presenti non indossano il velo. Con mia sorpresa, la ragazza che ha deciso di indossarlo è la più simpatica e la più spigliata. Mi spiega che è una sua scelta, e che sua madre non lo porta, e che anzi in Tunisia è comune incontrare famiglie per la strada dove la madre è senza chador e la figlia si.
Qualcosa in più riesco a farmela dire da un simpatico tassista che ha imparato l'italiano dalla tv (come tutti in Tunisia) mentre mi accompagna al porto per il ritorno a casa.
Dice che all'inizio Ben Alì ha fatto cose buone per il Paese, ma poi probabilmente per il troppo tempo passato al potere (ben 24 anni) ha perso contatto con la società. La corruzione dilaga in Tunisia e lui ha sistemato tutto il suo clan, e questo ormai comincia a far stancare la gente. Io dico che da questo punto di vista non ci vedo molta differenza con l'Italia. Lui ride.
Torno a casa con le idee un po' confuse. Sicuramente dal punto di vista religioso, la Tunisia è un paese moderato e molto secolarizzato. Dal punto di vista politico, mantiene molti tratti del regime, seppure molti pensano ancora sia un qualche modo "illuminato". Questo penso tornandomene in Sicilia.
Poi a gennaio 2011 scoppia il caos in Tunisia. I giovani, che da qui possono sembrare tanto diversi dai ragazzi che hanno affollato le piazze europee nel dicembre scorso (ma senza esserlo affatto), esplodono nella protesta.
Un quarto di secolo di regime soft spazzato via in pochi giorni.
Me l'avessero detto quest'estate che i tunisini avevano tutta questa rabbia addosso, non ci avrei creduto.
Si pensa spesso che le rivoluzioni siano un processo lento e inesorabile che cresce gradualmente fino all'esplosione. Forse ci fa piacere pensarlo, perché questa idea porta con sé la comodità di avere il tempo di mettersi in salvo.
Ma così non è. Un giorno prima sembrano incazzati, ma neanche troppo. Il giorno dopo sei in fuga col tuo aereo presidenziale. E chi vuole intendere, intenda.

domenica 16 gennaio 2011

La mamma di Marchionne e la questione di Mirafiori

All'insegna della multicanalità, riportiamo un interessante scambio di vedute avvenuto su FaeisBus tra bradipo, cipputi ed altri amici di bradiponevrotico, come Francesco Chiantese

Il tema è di giornata e le opinioni non scontate. Comunque, un tentativo di andare oltre gli slogan. Un saluto a tutti

Bradipo. Vedi Cipputi, io non avevo intenzione di difendere Marchionne, che da uomo di potere qual è non ne ha certo bisogno, ma di porre la questione di come noi approcciamo il problema. Tacciare Marchionne, Bonanni, Angeletti o chi sostiene l’acco...rdo di essere padroni sfruttatori o dei servi del padrone (o figli di troia) non aiuta né a spiegare né a risolvere i problemi, ovvero comporre i conflitti attraverso soluzioni che tengano conto dei diritti delle parti socialmente più deboli ma che permettano all’azienda di essere competitiva.
Il problema della produttività, poi, è cronico nel nostro paese, a tutti i livelli. E la produttività è centrale per rendere possibile la presenza di un sistema industriale, con le sue imprese, i suoi operai, i suoi impiegati, etc.

La dignità dei lavoratori ovviamente viene prima della produttività.
Ma modifiche all’organizzazione del lavoro simili a quelle proposte sono già operative in altri settori industriali, anche con l’accordo di tutto il mondo sindacale (che poi sulla questione della rappresentanza sindacale nelle aziende ci sarebbe molto da discutere…)

Io ho grande rispetto per il lavoro degli operai delle presse, delle verniciature, delle catene di montaggio, che fanno un lavoro estremamente faticoso, e penso che tu su questo non abbia dubbi. Ma semplicemente sono sicuro che impostare la discussione sul Noi contro Loro, su Lavoro contro Capitale non serva a migliorare le condizioni di questo paese, che ha bisogno di entrambi e ha bisogno di una discussione politica con uno sguardo ampio.

Il conflitto è un indispensabile strumento di lotta ma poi ci devono essere anche le soluzioni concordate. Sennò si finisce per fare delle battaglie che ci riempiono di orgoglio, che ci fanno sentire comodamente dalla parte giusta ma che hanno il difetto di non offrire una prospettiva.

P.S. ho sentito Samuele Bersani e lui e d’accordo con te. Quindi sono solo..

Cipputi. Si ma come dice la stessa parola "status", lo status di fb è uno spazio per esprimere stati d'animo, non credo sia possibile articolare ragionamenti con 300 battute. In ogni caso, il tuo lunghissimo ragionamento, ripeto, non ha nulla a che ...vedere col caso specifico.
La produttività degli operai non c'entra nulla col fatto che marchionne stia tentando (e forse ci sia riuscito) di far tornare i diritti dei lavoratori indietro di cento anni, uscendo dalla confindustria e minacciando di lasciare il paese dopo che il paese ha tenuto viva la fiat per decenni, perché "dava lavoro agli italiani".
Dunque, quando dico che Marchionne è un figlio di troia, non esprimo un giudizio sulle relazioni tra padroni e lavoratori, ma su Marchionne e sulla sua gestione della vicenda Mirafiori.
Dunque, a meno che tu non pensi che Marchionne sia stato onesto e condivisibile in questo passaggio, il tuo ragionamento di contesto è fuoriluogo rispetto alla mia considerazione su Marchionne. Ed è il problema che sta allontanando tra l'altro il Pd dal suo popolo: perdersi in distinguo e premesse, quando non è il momento.

Cipputi. ...anche perchè mettendo in relazione la produttività degli operai con l'operazione di Marchionne, implicitamente stai giustificando parzialmente il suo comportamento. Come quando di fronte a uno stupro, uno nel dire che è sbagliato, comincia dicendo: "certo, se una va in giro vestita come una mignotta non è il massimo, però.."

Bradipo. Il riferimento allo stupro è piuttosto manipolatorio, quindi quando ci vediamo ti meno io.

Io volevo squarciare quell'unanimismo che c'è intorno alla questione e che nelle ristrettezze di spazio di FB si esprime in posizioni facili e approva...zioni in batteria. Qualcosa tipo, "sempre e comunque con la fiom". Ecco questo è un modo di ragionare infantile.

Che ce ne fotte, noi tifiamo per loro tanto non dobbiamo mica capire quali siano le sfaccettature del problema prima di scegliere. A noi basta essere dalla parte giusta. E poi se la fiat va a puttane che ce ne fotte, siamo mica metalmeccanici noi?

Cipputi, sono convinto che tu non la pensi così, per questo faccio polemica con te...

Cipputi. No, non la penso così, ma ripeto che secondo me quello che sta facendo Marchionne e la discussione sul modello produttivo non sono due cose collegate. Il suo trucco è questo, farle sembrare legate.
Lui sta semplicemente ricattando dei padri ...di famiglia per potergli togliere dei diritti sacrosanti.See More
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Francesco Chiantese. Marchionne, però, resta un figlio di troia.

Bradipo. CVD

Massimiliano Perrone. No dai almeno figlio di Tonna...in una tonnaia!

Francesco Chiantese. No, la mia risposta non dimostra proprio nulla; è ovvio che la questione è complicata, è ovvio che si può ragionare delle radici, dei rami, della corteccia, delle foglie, dei fiori, e del puzzo della questione.
La cosa è doverosamente necess...aria.
Non sono uno che "ama" i sindacati, ne possiamo "ridurre" la questione al comportamento degenere di un solo individuo.
Però, questo non vuol dire, che per un attimo non si possa soffermarci proprio su questo.
Ho "apprezzato", anzi "amato" Cipputi anche questa volta (nelle sue parole, non fraintendiamo, niente carnezzerie), perché con la leggerezza calviniana (e solo calviniana) della sua affermazione c'è una delle verità della questione.
Marchionnè è evidentemente uno che ha l'intenzione, non tanto velata, di cambiare il sistema di contrattazione in Italia al ribasso; ha colto la palla delle "ansie da crisi", ha colto la sfilacciatura annosa del sistema sindacale, ha colto il momento debole della politica italiana per calcare la mano...sia a livello di confindustria che sindacale.
Ha voluto "sdoganare" (eh...quante volte ho usato questa parola negli ultimi dieci anni) un modus operandi che, in Italia, molti industriali...pardon...finanzieri (che questi l'industria non sanno cosa sia) agognavano ma che non aveva la forza di proporre.
Ridurre la riflessione attorno a Marchionne (eliminando per un attimo-istante le altre borre di questa questione) nella frase "Marchionne è un figlio di troia" vuol dire esprimere la questio in un pensiero che non ha in se la superstizione della comprensione, che passa oltre, che passa sotto.
E' stato il mio primo pensiero, anche quello di mio padre (con 2o anni di linea ed altrettanti di taglio di bosco alle spalle...che litigò con mia madre quando non volle accettare di andare a lavorare in fiat a mirafiori), quello di mio nonno, del mio vicino Gabor, di molti amici "letterati" e di altrettanti analfabeti.
Nella frase di Cipputi non ho visto una semplificazione sul piano dei contenuti, piuttosto sul piano del linguaggio.
Sarebbe come dire che la pernacchia di Totò o l'uscita di Fantozzi sulla corazzata "potionchi" siano "semplificazioni".
Dovremmo reimparare, al contrario, che qualche volta un rutto è la giusta risposta.
Scusatemi...ovviamente...mi son dilungato; le "misure" di facebook non sono per me.

lunedì 3 gennaio 2011

Welcome back in Rome

(ovvero gli ermi colli di Roma)

Fortunatamente, ho un po’ rielaborato il trauma del migrante, tanto da esser contento di esser tornato a Roma e di poter vagabondare per le strade.
Più prosaicamente, stamattina la necessità di recarsi a trastevere era legata ad un cambio regali ma l’effetto vacanza si è fatto sentire comunque, in un modo strano.
Arrivato a piazza San Cosimato ho assistito in contemporanea a due eventi eccezionali, ovvero la presenza di una zingara che suonava meravigliosamente la fisarmonica (diciamocelo al di la della comprensione: di solito suonano di merda, almeno in metropolitana) e a due simpatici deficienti che giravano per la piazza, in mezzo alle giostre artistiche per bambini con un maiale vietnamita al guinzaglio. A completare il quadro, mancava solo il Mago Guarda.