martedì 31 marzo 2009

Abusivismo Culturale (piccola marchetta disinteressata)


In un periodo in cui con fervore si perseguono tutte le clandestinità, tutte le alterità e gli abusivismi, in un insopprimibile odio nei confronti delle scale di grigio, dei distinguo rispetto al bianco e al nero, una realtà come il Rialto Sant’Ambrogio non poteva passare inosservato.
Per i bradipi non residenti a Capitol City, il Rialto è un centro sociale del terzo millennio, in cui c’è vera produzione di eventi artistici, musicali, teatrali (culturali, se po’ di’) e che da anni attrae centinaia di persone che, con l’occasione di feste e serate musicali di grande richiamo, fruiscono poi degli altri eventi. Nel pieno centro del ghetto ebraico di Roma in un palazzo prima occupato e poi concesso.
Nei giorni scorsi la struttura è stata colpita da provvedimento amministrativo, causa la somministrazione non autorizzata di bevande e rischia la chiusura. Mi rendo conto delle esigenze amministrative ma dopo lo sgombero dell’Angelo Mai di due anni fa (altro centro sociale nel centro della città eterna) sarebbe un colpo molto duro, soprattutto per le mie serate.
Per questo vi invito a leggere questo appello.


SONO ILLEGALE E SENZA LICENZA SOMMINISTRO CULTURA INDIPENDENTE

Evvero questa volta la questura, grazie ai potenti mezzi investigativi e a un blitz ben organizzato in collaborazione al
“personale delle unità cinofile, del reparto mobile della polizia di stato, del battaglione dei carabinieri, della polizia municipale e della asl”, ha trovato al rialto “delle lattine o bicchieri contenenti birra, e una sala attrezzata con strumenti idonei alla diffusione di musica”.
Evvero sono colpevole perché da oltre dieci anni impegno il mio tempo a sviluppare un luogo di democrazia sostanziale e di
partecipazione che si chiama Rialto sempre in bilico fra legalità e illegalità.
Confesso che il reato è associativo perchè dalla metà degli anni ottanta, in un contesto determinato dal riflusso e dall’arretramento, molti di noi h anno riconvertito la loro militanza politica in queste esperienze dando l’avvio ad una pratica di occupazione di edifici “improduttivi”. Così abbiamo occupato scuole, fabbriche, magazzini svuotati delle loro funzioni e li abbiamo riempiti di nuovi sensi e contenuti per costituire una tra le più importanti sacche di resistenza giovanile alla normalizzazione imperante: una parte della città rifunzionalizzata non da strategie economico-urbanistiche, ma grazie alla determinazione e alla creatività delle persone che la hanno rianimata dando vita ad una grossa fetta di cultura contemporanea a Roma. [...]


lunedì 30 marzo 2009

E' un mestiere di mmerda... ma qualcuno dovrà pur farlo

Questo è il paradosso dei paradossi. Uno dei pochi in Sicilia che fa informazione viene accusato di non essere un giornalista, perchè non ha il pezzo di carta..
Io propongo di usarlo come miccia per far esplodere le contraddizioni insostenibili dell'ordine dei giornalisti. Basta con la casta!
Facciamo casino più possibile attorno a sta cosa..




da www.ucuntu.org:

Pino Maniaci conduttore del Tg di Telejato, tv di Partinico (Pa), è stato rinviato a giudizio per "esercizio abusivo della professione di giornalista". La citazione diretta è stata disposta dal pubblico ministero di Palermo Paoletta Caltabellotta. Il processo è stato fissato davanti al giudice monocratico di Partinico il prossimo otto maggio. Secondo l’accusa, Maniaci, "con più condotte, poste in essere in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso", avrebbe esercitato abusivamente l’attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato.

Pino da anni lavora a Telejato, emittente che più volte è stata minacciata, querelata e contestata da boss e notabili della zona di Partinico. L’anno scorso Maniaci era stato minacciato di morte dal figlio di un boss della famiglia Vitale.

"Hanno rinviato a giudizio Pino Maniaci per ’esercizio abusivo della professione’. Pino Maniaci - dice Riccardo Orioles, direttore responsabile di Telejato -, prima di essere un antimafioso che rischia la pelle per il suo paese, è anche uno dei migliori giornalisti d’Italia: Telejato è conosciuta in paesi in cui non sanno nemmeno cosa sia "La Sicilia" e il "Giornale di Sicilia". Come direttore responsabile di Telejato affermo che Pino Maniaci ha sempre esercitato la sua professione in maniera niente affatto abusiva ma chiara ed esemplare. Intendo - conclude Orioles - ricostruire l’iter di questa bizzarra incriminazione ed accertare in particolare se qualche collega siciliana abbia avuto parte in calunnie verso Pino Maniaci. Invito l’ordine nazionale dei giornalisti ad attivarsi con me in tal senso".


Chi è Pino Maniaci
A Partinico esiste una piccola emittente, una piccola ma grandiosa emittente, Telejato. A condurre tutta la baracca è Pino Maniaci, l’omino della Bialetti, come è descritto in un settimanale. Pino Maniaci fa giornalismo, non fa il giornalista perché è stato assunto o perché ha un contratto da conduttore. Fa giornalismo serio per missione. Una missione che a volte lo porta a rimetterci denaro, anziché guadagnarlo. La differenza tra un giornalista "impiegato" e Pino Maniaci, è che i servizi giornalistici dell’omino della Bialetti portano a conseguenze dannose a Cosa Nostra, come l’abbattimento di stalle di proprietà dei boss Vitale, utili strategicamente a Cosa Nostra. Tanto ha strepitato contro queste costruzioni, che a seguito dell’abbattimento, un gruppo di ragazzi tra cui il figlio dei Vitale non molto tempo fa, attentò alla vita del giornalista, pestandolo e stringendo a forza la carotide. Maniaci non si è fatto abbattere neanche da questo, e pur avendo prognosi di alcuni giorni di convalescenza, ha firmato per uscire dall’ospedale perché il giorno dopo aveva un impegno con i suoi ascoltatori: la conduzione del TG. La conduzione del TG di Telejato non è la conduzione di un TG qualunque. Non ci sono montatori, tecnici del suono, tecnici delle luci, operatori, cameraman e redazione. Fanno tutto in famiglia. (antonella serafini)

Di Pino Maniaci avevamo già parlato su Bradiponevrotico, qui.

martedì 24 marzo 2009

Sogni da Orbi


Prendendo spunto da una bella vignetta di Kanjano+Ferro, mi chiedo la seguente cosa:
E' stato appurato che i due stupratori del parco della Caffarella a Roma non erano i primi due che avevano arrestato (e qui mi immagino un coro di voci pensanti che dicono "Vabbè, quelli sono tutti uguali, come i cinesi). Bene. Solo che a questo punto, in un altro paese (ditene pure uno a caso), la stampa e la società civile si sarebbe lanciata sulle forze dell'ordine con una domanda secca e senza via di fuga:
Com'è possibile che uno dei primi due uomini arrestati, pur sapendo di essere innocente e pur sapendo di essere stato accusato per un reato per cui oggi la gente sarebbe pronta al linciaggio, ha inizialmente confessato la sua colpevolezza?
Sarà un mitomano? Un millantatore? O c'è altro?
Insomma... sogni di gloria o botte da orbi?
La domanda rimarrà senza risposta, Genova docet, anche perché certe domande non si gridano, che è maleducazione.

lunedì 23 marzo 2009

A fari spenti nella notte... Il ritorno di Gino Vitellone



Ritorna la rubrica più incostante che ci sia.. "Universo Fava"! Questa settimana ridiamo la parola a Gino Vitellone, il nostro esploratore del genere femminile e delle sue contorte reazioni, l'avanguardista della figuraccia e delle recupero in zona cesarini.. Ma anche stavolta, come i tempi bui ci chiedono, la storia che racconta è di quelle senza happyend..



"Essere Gino Vitellone significa rischiare. Rischiare per portare la pagnotta a casa. Andare a stanare la patata laddove si nasconde. A volte -ahimè è la guerra - rubarla a qualcun'altro o strapparla dalle mani ancora calde di una cadavere sentimentale.
Dunque, la ragazza si era appena lasciata dopo anni di fidanzamento ferreo e indiscutibile. In questi casi, la singletudine improvvisa può essere di due tipi: o temporanea e totalmente ermetica ai nuovi inserimenti (fate pure le basse metafore che state pensando), o definitiva, straziante, bisognosa di consolazione. Ed è lì che arriva Gino Vitellone, affabile, cortese, paziente come un cobra. Pronto a mettere una mano sulla spalla, e l'altra...
Tornando a noi, dopo giorni di avvicinamento alla ragazza appena lasciata, avendo fatto i miei indiscutibili calcoli sulla probabilità che le piacessi, capisco che è il momento di sferrare l'attacco finale.
Scena notturna. Dopo una serata passata in compagnia di altri, la riaccompagno a casa. Spengo la macchina e cominciamo a parlare. La voce come al solito è suadente, il sorriso più simile possibile a quello di un affabile venditore di elettrodomestici. Proprio mentre l'atmosfera si fa densa, si accende la luce dell'ingresso di casa sua. Spunta un'ombra, che in men che non si dica assume la forma robusta e minacciosa del padre. Lui chiama il nome della ragazza, lei sbuffa. Il padre capisce dalla macchina che non si tratta del suo ex ragazzo storico (che per i genitori rimane il ragazzo almeno per sei settimane, essendo loro per natura stessa tardi ai cambiamenti come il Vaticano e il Pd). Quindi l'omone comincia a scrutare dentro l'ombra dell'abitacolo. Io mi esibisco nella mia imitazione migliore del coprisedile in tessuto sintetico. Aspetto che da un momento all'altro apra lo sportello, mi tiri fuori con un mignolo, e mi meni senza pietà. Invece si limita a dirle di sbrigarsi a salire e se ne va. Pericolo scampato, mi ricompongo e passo all'attacco. Con la mia abilità da moderatore di talk show, lascio scivolare la discussione sul piano sentimentale. Ed è lì che lei abbassa lo sguardo e ammette che sì...c'è una persona che le piace. Bingo, non posso che essere io, in questi giorni le sono stata addosso come il carceriere di Natasha Campus. Apro la bocca e aspetto che la preda s'infili docilmente dentro le mie fauci. "Viene all'università con me. E' di Agrigento". Un attimo, facciamo mente locale. Io non vado all'università... e non parlo come Totò Cuffaro... Cristo, non sono io!
La situazione precipita. Dalla mia espressione catatonica lei intuisce la mia delusione. Biascica due parole di conforto, ma così.... a metà, senza convinzione, giusto per far capire che insomma, non è che proprio non gliene fotta nulla nulla di me... Io assumo il mio solito contegno post-duedipicche. Rimodulo la voce su frequenze impersonali, smetto la posizione allungata su di lei e mi drizzo sulla schiena. Cambio repentinamente l'oggetto del discorso portando la conversazione su quanto di più noioso esista. Dopo aver scambiato un paio di chiacchere sul problema dell'alcolismo adolescenziale nel comprensorio, decido che è arrivato il momento di salutarci. E qui arriva il colpo di scena finale, di quelli che danno una grandezza tragica alle sconfitte e rendono il solito due di picche di routine un evento eccezionale.
Lei scende dalla macchina, si volta per salutarmi. Io giro la chiave pronto ad andare via (ma senza sgommare, che non si usa più dal '96)... e la macchina non parte. Non parte, nulla da fare. Per tutto il tempo ho lasciato i fari accesi e la radio di sottofondo. La batteria è morta, io muoio con lei. Lei mi guarda imbarazzata. Potrei lasciare la macchina sotto casa sua, e tornarla a prendere domani. Ma casa mia è vicina, è giusto una strada più in giù, è tutta discesa.
Dunque decido. Scendo dalla macchina, farfuglio una spiegazione, tolgo il freno a mano, e mi allontano spingendo la macchina.
Signori... c'è poco da ragionare. Lancio una sfida: chi può raccontare un epilogo più triste? un uomo che torna a casa con le pive nel sacco, dopo un rifiuto inaspettato, spingendo la macchina sotto gli occhi di lei.
Io sono leggenda".

(Gino Vitellone)

È una questione di Agenda Setting (ovvero piccola città bastardo posto)


Dà sempre grande gusto osservare i giornali locali, soprattutto in realtà piccole e tutto sommato tranquille. Sembra di assistere alla fiera della notizia, in cui piccoli fatterelli assurgono - nell’enfasi del giornalista/banditore – a fatti da prima pagina.
Nell’immagine che vedete accanto, le civette di due giornali senesi; quindi il prototipo ideale di piccoli giornali di piccole e tranquille città.
Temi affrontati e colonne portanti nell’iummaginario collettivo:
Droga&Sesso&Università (Vedrai, ‘un c’hanno nulla da fa’, signora mia)
Salute&Sicurezza (che ci vo fa’, è l’ethà)
Vino, per innaffiare il tutto (ci sta sempre di molto bene)

Mancherebbero i soldi, ma in questi tempi di vacche magre va forte l’entertainment…

lunedì 16 marzo 2009

L'uomo che non tolse più il cappello




E poi dicono che la TV fa male…
L’occasione è popolare: la trasmissione sul primo canale nazionale di una fiction che ha come protagonista Giuseppe Di Vittorio, bracciante e segretario generale della CGIL nel dopoguerra, pugliese di Cerignola. Nonostante su La Stampa di ieri sia stata riportato un sondaggio secondo cui il 90% dei maturandi intervistati non ha idea di chi sia, Di Vittorio è un simbolo (ed è stato un uomo) che onora la mia regione e l’Italia e che può dare un po’ di rispettabilità al ruolo sociale e politico del sindacalista, troppo spesso oggetto di violente ingiurie. Vale la pena ricordare quanti sindacalisti ogni anno vengono uccisi nel mondo (si pensi al Messico o alla Colombia) e quanto sia feroce la diffidenza nei loro confronti, in un’economia che vede come la peste le organizzazioni dei lavoratori e spinge alla loro definitiva individualizzazione. Certo, ci sono delle responsabilità da parte di sindacati e sindacalisti (corporativismo, subalternità alla politica, opportunismo individuale). Ma anche per questo è utile ripensare a Di Vittorio.

Per questo abbiamo scelto un articolo di Nichi Vendola (che da sempre cita il sindacalista pugliese nel suo pantheon, insieme a Moro, Gramsci, Don Tonino Bello, Salvemini e le mamme di Puglia), apparso su La Gazzetta del Mezzogiorno di ieri.


Peppino Di Vittorio, l’uomo che non tolse più il cappello

di Nichi Vendola

Un secolo fa. Era una Puglia aspra e feudale, abitata da una sterminata plebe rurale, abituata a vivere e a morire nel fango e nell’anonimato, come sospesa in un tempo ferocemente immobile, affamata di pane e di miracoli, educata alla soggezione verso quella casta agraria (nuova borghesia o vecchia aristocrazia) che imponeva il proprio dominio come fosse una volontà del cielo. Nelle albe primonovecentesche del Sud il lavoro era ancora servitù della gleba, nelle piazze bellissime dei nostri paesi ancora col buio si mettevano in vendita le braccia, era il mercato dei braccianti ruotante attorno a una nuova figura di organizzatore e mediatore sociale: il caporale. Il caporalato era il presidio violento del latifondo, la ronda che controllava il territorio della subordinazione coatta al padrone, il selettore capriccioso della forza-lavoro: come in un’arcaica lotteria della vita, il caporale sceglieva a suo piacimento chi lavorava e chi no. Si era esclusi perché fisicamente considerati inidonei, perché sospettati di coltivare sentimenti socialisti, o semplicemente per esaurimento dell’offerta. Non esisteva orario di lavoro, da tenebra a tenebra, da notte a notte, spesso dovendo percorrere chilometri nella terra melmosa e petrosa portandosi sulle spalle gli attrezzi agricoli. Non esisteva salario che non fosse un tozzo di pane condito con una goccia d’olio. Il lavoro era merce povera, grezza, un puro fatto biologico da consumare (e da cui farsi consumare) in solitudine, in silenzio. Un secolo fa, nella campagna poverissima di Cerignola, fu un bracciante affamato a rompere per sempre quel silenzio e a spezzare le catene di quella solitudine che occultava la struttura materiale e simbolica di una gigantesca ingiustizia. Peppino Di Vittorio, ancora fanciullo, aveva visto morire suo padre e ne aveva dovuto ereditare la fatica nei campi. Ma quel bambino sentiva il fascino della parola, coltivava una straripante voglia di conoscere e di capire, comprò quel prodigioso libro che contiene tutte le parole del mondo (un dizionario), e costruì così, nella fatica supplementare di una auto-educazione, il sentimento della propria «autonomia intellettuale». Le parole gli servirono per decifrare i codici di una società odiosamente classista, e contemporaneamente per dare voce e significato a quelle vite, a quei volti, a quei cafoni il cui destino era parso pesare quanto una foglia in autunno. Vite smarrite di un lavoro da schiavi, di gente abituata a levarsi il cappello di fronte al padrone, in segno di ancestrale rispetto, in segno di atavica obbedienza. Perché lui era il padrone, i gendarmi lo proteggevano, i caporali ne garantivano la forza economica, il clero, in cambio di laute elemosine, ne magnificava la munificenza. Di Vittorio insegnò ai braccianti di Puglia – e del mondo – a non togliersi più quel cappello, e cioè a non subire oltre all’artiglio di un odioso comando di classe anche la carezza ideologica della soggezione paternalistica. Non togliersi il cappello significa guadagnare un punto di vista autonomo, prendersi spazi di libertà, cominciare ad abitare il lavoro come una narrazione collettiva, come una dimensione sociale, come un legame di comunità. Questa storia di un secolo fa va in onda stasera e domani su Rai 1 in una bella fiction coprodotta anche dalla nostra Regione e dalla nostra Apulia Film Commission. «Pane e libertà»: un storia che dice del nostro ieri ma anche del nostro oggi. La crisi, la paura del futuro, l’angoscia della precarietà tornano, in forme nuove, a bussare alle nostre case e ci ricordano che non c’è modernità se non c’è dignità e diritti nel lavoro; che non c’è libertà che non comporti fatica e lotte e passione. Anche oggi che i braccianti parlano slavo o africano, e i nostri ragazzi tornano ad emigrare per cercare un varco di speranza, anche oggi c’è bisogno di trovare un libro che ci dica le parole, quelle che mancano, quelle che Peppino seppe trovare e che a noi mancano ancora.


15/3/2009

Trent'anni... e accusarli


Donk Donk Donk (leggasi come dunque in francese)... fine settimana passato all'insegna dell'amarcord universitario in quel di Siena.
Tanti 30enni entusiasti all'idea di ubriacarsi e ballare senza cognizione né di causa né di nient'altro. La riflessione porta a pensare che a questa età o sei sposato con figli o torni adolescente...
A giudicare dal numero di sbronze degli ultimi mesi, non sono né sposato né ho figli.
A proposito, l'amico Rik, inviato in Argentina, ha appena partorito (per interposta persona) una bambina: Alma!
Che dire, lui ha 25 anni e una moglie e un figlio... Mi toccherà ubriacarmi anche per la sua adolescenza perduta.
Per il resto, un paio di notazioni sparse.

1)Brad, diciamoci la verità... qua tutti non fanno altro che dire che sto nuovo template del blog fa cacare... che facciamo, continuiamo a ignorare il popolo e poi quando la frattura diventa insanabile chiamiamo Franceschini?

2)Insieme a questo post aggiungiamo due link al blog, di cui vi faccio una breve introduzione.

L'Altra Riva . Blog letterario ed errante di Francesca De Carolis, giornalista Rai, con cui sono entrato in contatto per una bella trasmissione su Radio1 su Favole e cronaca.

Kanjano.org. Blog del monumentale (in senso fisico e meta- )Giuliano Cangiano, vignettista di razza, appena disoccupato dall'avventura di Emme, l'inserto satirico dell'Unità di recente assassinato.

ok, fine delle trasmissioni.

Ora mando un messaggio in codice (e chi vuol appropriarsene lo faccia):
"Basta con la logica dell'una tantum. Riformare la figa in senso meritocratico!"

Ouu...Brad... metti i link a lato, che ormai li ho annunciati, non facciamo i peracottari... messi?...e ora?... adesso?

venerdì 13 marzo 2009

Le ripartenze



Non mi abituerò mai alle partenze.
Ci sono troppe cose che mi pesano, eppure sono anni che assisto o sono protagonista di molteplici partenze (struggenti, rabbiose, divertite, emozionate).
La notizia mi ha raggiunto proprio nel pieno di un convegno internazionale di cazzate (che mi vedeva, ça va sans dire, tra i relatori di punta) all’ombra della torre mangiona.
Dunque, un’amica parte dalla capitale in direzione nord, con una doppia indicazione sentimental-lavorativa. Nulla da eccepire nel merito, ovviamente. Né eccepisco qualcosa sulla bontà delle melanzane a fungitiello preparate dalla sua amica e compagna di casa per la festa d’addio. Anzi.
Ma una tristezza latente si è impossessata di me donandomi però uno sprazzo di lucidità. Mi sono sentito come il personaggio interpretato da Abatantuono in “Nirvana” di Salvatores, il quale era condannato a vivere in un video-gioco e quindi a ripetere inevitabilmente le stesse situazioni, le medesime sensazioni fino alla fine dei tempi.
Quante volte mi sono sentito così? Inutile insistere.
Non è stato d’aiuto constatare quanto queste sensazioni fossero condivise dagli altri presenti, quasi non ci fosse rimedio per questo spaesamento, vaccino per questa malattia.
Siamo (intendo dire noi emigranti, qualsiasi questo termine significhi) condannati a rivivere il trauma del distacco: dalle persone, dalle città, dalle lingue e dai palati. Siamo condannati a mitizzare quei luoghi e quelle persone per poi rimanerne inevitabilmente delusi.
Come il povero Anguilla de “La luna e i falò” o il sottoscritto Bradiponevrotico.

sabato 7 marzo 2009

Je m’accuse (il titolo si ispira a Zolà, di cui vedete la foto)


Caso PD

Ammetto tutte le mie colpe: Veltroni che ho sempre sostenuto si è rivelato non all’altezza. Non è riuscito a dare quell’impulso che pensavo al partito democratico. Si è fermato al discorso di Spello, con le valli umbre, le belle parole; la manifestazione colorata del circo massimo è rimasta una rappresentazione finta (quasi ad uso esclusivo delle telecamere) e non ha smosso nulla nella persone che avrebbero dovuto (compreso chi parla) fare qualcosa in più.
Col senno di poi, anche la “vocazione maggioritaria” si è rivelata una “vocazione suicida”. Certo, ora l’area più intransigente a sinistra fa vita propria e magari si alleeranno (prc ferreriano, pdci, sinistra critica) ma ci ritroviamo con un Tonino Di Pietro sempre più dominante all’opposizione (e si sa che è più difficile parlare di politica con di pietro che con ferrero). Tutti i voti “maggioritari” confluiti verso il PD alle politiche sono in libera uscita ed è difficile che vengano intercettati dalla Sinistra per le Libertà di Vendola, Mussi, Fava e Francescato. Un bordello.
È anche colpa mia.
E poi, ma come ha potuto Veltroni alzarsi la mattina e dimettersi d’impulso, senza pensare a quello che sarebbe stato del PD. Walter, è la seconda volta che lo fai (la prima con i DS nel 2001). Ora hai rotto il cazzo. Mi spiace dirlo.
In tutto questo Silvio ormai gigioneggia. Sicuro del suo futuro quirinalizio già si vede riportato nei libri di scuola (quelli veri, non solo nei manuali d’esame di cento pagine degli scienziati della comunicazione). Bel risultato, complimenti a tutti, anche a me.

Non capisco
Ci sono alcune cose che proprio non mi riesce di capire: per esempio, per quale motivo ogni volta che passo dalla Bocca della Verità a Roma è sempre stracolma di gente? Ma che c’è da vedere? Non sarà ancora il fascino di Audrey Hapburn e Gregory Peck? Non mi capacito.
(devo aggiungere che anche qui ho colpa: da qualche parte a casa dei miei c’è una foto –rigorosamente con i miei fratelli – davanti alla bocca della verità…)

Altre scuse
Queste riguardano la mia assenza dal blog, dovuta a impegni di lavoro soverchianti che non mi hanno lasciato il tempo per scrivere qualcosa.
(Cazzata: la verità è che non avevo voglia di scrivere e forse mi mancava l’ispirazione)

Grazie a Cipputi e Pablo e Lucyinthesky che hanno invece continuato a scrivere e commentare.

Sempre vostro, Bradipo

P.S. Cipputone ora sei contento di questo mio autodafé?

P.P.S. Scusate gli errori e le parolacce. Questo post è stato scritto di getto, senza rifletterci. È così che si deve fare sui blog! (l’ho letto su L’internazionale…)

mercoledì 4 marzo 2009

Bradipismo sp(i/e)nto

No eh... scusate... tanto per chiarire: io ho cambiato casa e sono ancora nelle fasi terminali del trasloco.
Ma Brad... perchè non scrive più una riga sul suo blog da settimane?
Vieni fuori, vigliacco!
Scrivi almeno due righe sul carnevalone liberato di Poggio Mirteto!