lunedì 16 marzo 2009

L'uomo che non tolse più il cappello




E poi dicono che la TV fa male…
L’occasione è popolare: la trasmissione sul primo canale nazionale di una fiction che ha come protagonista Giuseppe Di Vittorio, bracciante e segretario generale della CGIL nel dopoguerra, pugliese di Cerignola. Nonostante su La Stampa di ieri sia stata riportato un sondaggio secondo cui il 90% dei maturandi intervistati non ha idea di chi sia, Di Vittorio è un simbolo (ed è stato un uomo) che onora la mia regione e l’Italia e che può dare un po’ di rispettabilità al ruolo sociale e politico del sindacalista, troppo spesso oggetto di violente ingiurie. Vale la pena ricordare quanti sindacalisti ogni anno vengono uccisi nel mondo (si pensi al Messico o alla Colombia) e quanto sia feroce la diffidenza nei loro confronti, in un’economia che vede come la peste le organizzazioni dei lavoratori e spinge alla loro definitiva individualizzazione. Certo, ci sono delle responsabilità da parte di sindacati e sindacalisti (corporativismo, subalternità alla politica, opportunismo individuale). Ma anche per questo è utile ripensare a Di Vittorio.

Per questo abbiamo scelto un articolo di Nichi Vendola (che da sempre cita il sindacalista pugliese nel suo pantheon, insieme a Moro, Gramsci, Don Tonino Bello, Salvemini e le mamme di Puglia), apparso su La Gazzetta del Mezzogiorno di ieri.


Peppino Di Vittorio, l’uomo che non tolse più il cappello

di Nichi Vendola

Un secolo fa. Era una Puglia aspra e feudale, abitata da una sterminata plebe rurale, abituata a vivere e a morire nel fango e nell’anonimato, come sospesa in un tempo ferocemente immobile, affamata di pane e di miracoli, educata alla soggezione verso quella casta agraria (nuova borghesia o vecchia aristocrazia) che imponeva il proprio dominio come fosse una volontà del cielo. Nelle albe primonovecentesche del Sud il lavoro era ancora servitù della gleba, nelle piazze bellissime dei nostri paesi ancora col buio si mettevano in vendita le braccia, era il mercato dei braccianti ruotante attorno a una nuova figura di organizzatore e mediatore sociale: il caporale. Il caporalato era il presidio violento del latifondo, la ronda che controllava il territorio della subordinazione coatta al padrone, il selettore capriccioso della forza-lavoro: come in un’arcaica lotteria della vita, il caporale sceglieva a suo piacimento chi lavorava e chi no. Si era esclusi perché fisicamente considerati inidonei, perché sospettati di coltivare sentimenti socialisti, o semplicemente per esaurimento dell’offerta. Non esisteva orario di lavoro, da tenebra a tenebra, da notte a notte, spesso dovendo percorrere chilometri nella terra melmosa e petrosa portandosi sulle spalle gli attrezzi agricoli. Non esisteva salario che non fosse un tozzo di pane condito con una goccia d’olio. Il lavoro era merce povera, grezza, un puro fatto biologico da consumare (e da cui farsi consumare) in solitudine, in silenzio. Un secolo fa, nella campagna poverissima di Cerignola, fu un bracciante affamato a rompere per sempre quel silenzio e a spezzare le catene di quella solitudine che occultava la struttura materiale e simbolica di una gigantesca ingiustizia. Peppino Di Vittorio, ancora fanciullo, aveva visto morire suo padre e ne aveva dovuto ereditare la fatica nei campi. Ma quel bambino sentiva il fascino della parola, coltivava una straripante voglia di conoscere e di capire, comprò quel prodigioso libro che contiene tutte le parole del mondo (un dizionario), e costruì così, nella fatica supplementare di una auto-educazione, il sentimento della propria «autonomia intellettuale». Le parole gli servirono per decifrare i codici di una società odiosamente classista, e contemporaneamente per dare voce e significato a quelle vite, a quei volti, a quei cafoni il cui destino era parso pesare quanto una foglia in autunno. Vite smarrite di un lavoro da schiavi, di gente abituata a levarsi il cappello di fronte al padrone, in segno di ancestrale rispetto, in segno di atavica obbedienza. Perché lui era il padrone, i gendarmi lo proteggevano, i caporali ne garantivano la forza economica, il clero, in cambio di laute elemosine, ne magnificava la munificenza. Di Vittorio insegnò ai braccianti di Puglia – e del mondo – a non togliersi più quel cappello, e cioè a non subire oltre all’artiglio di un odioso comando di classe anche la carezza ideologica della soggezione paternalistica. Non togliersi il cappello significa guadagnare un punto di vista autonomo, prendersi spazi di libertà, cominciare ad abitare il lavoro come una narrazione collettiva, come una dimensione sociale, come un legame di comunità. Questa storia di un secolo fa va in onda stasera e domani su Rai 1 in una bella fiction coprodotta anche dalla nostra Regione e dalla nostra Apulia Film Commission. «Pane e libertà»: un storia che dice del nostro ieri ma anche del nostro oggi. La crisi, la paura del futuro, l’angoscia della precarietà tornano, in forme nuove, a bussare alle nostre case e ci ricordano che non c’è modernità se non c’è dignità e diritti nel lavoro; che non c’è libertà che non comporti fatica e lotte e passione. Anche oggi che i braccianti parlano slavo o africano, e i nostri ragazzi tornano ad emigrare per cercare un varco di speranza, anche oggi c’è bisogno di trovare un libro che ci dica le parole, quelle che mancano, quelle che Peppino seppe trovare e che a noi mancano ancora.


15/3/2009

2 commenti:

Anonimo ha detto...

mi sembra che ci sia troppa retorica qui e nella serie

e poi ormai i sindacati sono totalmente screditati

Anonimo ha detto...

Complimenti ai curatori del blog ... e a Vendola per le parole poetiche e appropriate. Chissà che il nostro distratto paese prima o poi non decida di farsi indicare la strada anche da persone come Vendola ....

... dopo la batosta in Sardegna sto diventando esterofilo :-)

Buona giornata