martedì 19 aprile 2011

Ventimiglia, provincia di Schengen




Le cronache di questi giorni raccontano di migliaia di tunisini ammassati a Ventimiglia, in attesa di poter varcare l'agognato confine e sentirsi finalmente in terra di Francia. Sul loro passaggio, è in atto un duro braccio di ferro tra i francesi e il governo italiano.
A un certo punto, uno dei due paesi ha tirato fuori la parolina magica “Schengen”. Probabilmente è stata l'Italia per prima: “La Francia rispetti gli accordi di Schengen e lasci passare i profughi”.
Schengen, Schengen. Quando io sento questa parola penso a undici anni fa. Al dicembre di undici anni fa per la precisione. Era il 10 dicembre del 2000, e c'era un treno bloccato a Ventimiglia. Mille e cinquecento persone ferme non per un incidente sulla linea, e manco per una tormenta di neve improvvisa, ma per Schengen. O meglio, per la sospensione del trattato di Schengen. Fermo a Ventimiglia insieme agli altri mille e cinquecento, era la prima volta che sentivo parlare di quel trattato. Stavamo andando a Nizza a manifestare contro il trattato europeo che sarebbe dovuto stare alla base di una Costituzione europea. Quello che qualche giornale cominciava a chiamare il popolo di Seattle e che nel giro di sette mesi sarebbe diventato il popolo di Genova si era messo in moto, affittando un intero treno per la Francia, con l'intenzione di sabotare una carta che delineava il futuro dell'Europa unita su basi strettamente economiche. Nessun accenno ai diritti, civili e sociali.
A Nizza, chi era riuscito ad arrivare da tutta la Francia e dal resto d'Europa, aveva messo in effetti a dura prova la tenuta della piazza da parte delle forze dell'ordine.
Noi eravamo bloccati alla frontiera. Il treno, organizzato da Rifondazione comunista, nella sua fase più splendente, si chiamava Global Action Express, se non ricordo male. Tra di noi, secondo le forze dell'ordine francesi, potevano esserci pericolosi terroristi.
Avevamo marciato lungo i binari fino ad occupare la frontiera per un'intera notte. Fu lì che sentì per la prima volta suonare la pizzica che per anni avrebbe ammorbato le mie serate estive universitarie.
Di quella notte ricordo anche la bandiera di Che Guevara alzata alta sul pennone di 30 metri al posto di quella Italiana al confine con la Francia. E migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa, schierati a testuggine di fronte al tunnel che portava a Nizza, capaci di farci paura solo a guardarli.
E poi il giorno dopo i primi limoni girare tra i manifestanti un attimo prima delle cariche, e i miei primi lacrimogeni respirati durante la fuga dai manganelli.
Tornammo indietro senza un nulla di fatto, a parte qualche titolo sui giornali.
Delle battaglie del movimento di Genova tante sono state perse, ma qualche vittoria la possiamo rivendicare dieci anni dopo. A partire dall'imposizione nell'agenda mediatica e politica di parole come globalizzazione, decrescita, riscaldamento globale, annullamento del debito, consumo critico, energie rinnovabili, democrazia partecipativa.
Quella di Ventimiglia, invece, fu una sconfitta, e una delle più scottanti. Imparavamo allora come Schengen imponesse un principio sacro di libera circolazione valido solo per le merci. Per le persone, si sarebbe tornato indietro a prima di Maastricht senza batter ciglio per ogni fastidioso scricchiolio del modello liberista. Mercato, non diritti. Merci, non persone.
E oggi, clandestini, non persone. Di quella sconfitta vecchia undici anni, vedo oggi gli effetti disumani in tutta la loro potenza. E capisco appieno, quando avevo quasi scordato, il valore altissimo di quel tentativo di costruire l'Europa nuova su fondamenta chiamate diritti e non solo sui pilastri scricchiolanti dell'economia.

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