giovedì 18 giugno 2009

Diario Venezuelano # 2



Caracas




L’arrivo a Caracas ha un impatto forte indotto da quell che vedi nel tragitto. Non hai l’impressione di arrivare in un altro mondo. Non avverti lo spaesamento di chi è sorpreso nel guardarsi attorno, nel vedere le persone e i paesaggi. Eppure lo avverti subito di essere un corpo estraneo.

A Caracas, come in tutto il mondo ci sono i quartieri ricchi e i barrios popolarissimi. Ci sono i fuoristrada e le fiat palio modificate o le macchine giappo-americane. L’impressione è di vedere una società che aspira a diventare ricca e occidentale ma a modo suo, con i propri simboli e le proprie metastasi. Il disordine, la violenza minacciata si palpano. A Caracas, che conta più di 5 milioni di abitanti si possono arrivare a contare 500 omicidi in un mese.

Da quando sono arrivato non ho fatto altro che pensare a cosa son venuto a fare. Ho sempre sperato di venire in sudamerica ma mai mi sarei aspettato di venirci da alieno, da prigioniero nella gabbia dorata di un albergo di lusso. Il divano da dove vi scrivo è nel soggiornino della mia piccola suite che comprende anche un bagno e una stanza da letto con due letti matrimoniali. Per farci cosa? Boh.

L’impressione ricorrente è di essere un po’ fuori posto in questo angolo coloniale del XXI secolo ma probabilmente è un sentimento autoconsolatorio, un po’ ipocrita.
La speranza di venire nelle americhe del sud per conoscere i popoli più meticci che esistano in questo mondo e cantare con loro era forse un po’ troppo ingenua e classificabile tra le utopie semi-adolescenziali. Mangiare l’avocado a colazione con i suonatori di arpa, però, mi fa un po’ sorridere quasi fosse uno scherzo architettato scientificamente.

Per passare dall’aeroporto alla città bisogna scalare e superare delle montagne. Caracas è coperta da queste montagne nella sua downtown, mentre si estende su di esse nel presepio di slum baraccati cresciuti senza senso apparente. Quelle sono le zone proibite, la zona rossa nella quale nessuno yanqui o presunto tale si può avvicinare. Chissà come si vive lì.
Devo riuscire a stabilire un contatto con persone del posto, magari negli ascensori o alle macchinette del caffè in ufficio, che sono come in Italia ma con un caffè letale.

Tra Chacoa e Las Mercedes invece ci sono le imponenti torri degli uffici. E i ristoranti. E il parco del golf e gli alberghi. Il mondo in cui si aggirano gli spaesati internazionali, fino a quando Chavez non deciderà (se mai lo farà) di trasformare definitivamente la Repubblica Bolivariana nella nuova avanguardia del socialismo. Tra gli occidentali si fa troppa ironia su Hugo Chavez Freite, con colpevole superficialità. Ci si burla dei suoi modi, delle trasmissioni-fiume sulle televisioni nazionali (fino a sei sette ore di monologo in diretta, lo giuro), ma non si fa lo sforzo di capire il perché del grande seguito di cui gode tra la popolazione. Non ho simpatie per lui, in fondo sta preparando il campo alla propria dittatura personale più che al socialismo. Ma vale la pena cercare di capire se anche lui destinato ad un inevitabile senilità da Autunno del Patriarca;o se c’è qualcosa di duraturo in questa semi-democrazia popolare e populista.
Nel frattempo, centinaia di muri della città e lungo le strade sono stati votati alla propaganda chavista mentre le televisioni si esercitano i gare di fedeltà assoluta al presidente.
Per ora quindi non ci ho capito molto di questa città, ve ne sarete accorti. Spero solo di non ripartire tra qualche settimana con l’impressione di aver perso un’occasione.

(Continua)

P.S. la valigia è arrivata ieri, senza problemi. Ho scongiurato il rischio importare in Italia la famosa biancheria intima venezuelana…

2 commenti:

Anonimo ha detto...

ma sei stato sette ore alla televisione a guardare chavez? vaffanculo esci!

s,b & claudia

Anonimo ha detto...

no, mi sono travestito da chavez e sono andato in giro per caracas col megafono, come l'assessore palmiro cangini