venerdì 17 settembre 2010

L'Utopia sociale dell'amore (o del perché i nostri amori durano quanto uno yogurt)

Perchè i nostri amori, intendo soprattutto nostri di noi trentenni, durano il tempo di uno yogurt?
Per colpa dell'utopia sociale dell'amore. Ora mi travesto da Francesco Alberoni e vi spiego.
Presupposto di questa teoria è che l'uomo ha bisogno di un'utopia per vivere. E questo volendo non è neanche un concetto tanto originale. L'uomo ha bisogno di un sogno bello, perfetto e irraggiungibile per dare una tensione costante alla propria esistenza, e non doversi trovare in ultima analisi faccia a faccia con l'enorme pagliacciata che è la vita stessa.
Fino a qualche decennio fa, prendiamo ad esempio il dopo guerra italiano, le utopie che andavano per la maggiore in società erano il comunismo e la religione.
Dunque, sacrificata la più grossa fetta della propria tensione all'inseguimento di queste utopie, al rispetto delle loro ferree regole, negli altri ambiti uomini e donne erano molto più pratici.
Anche in amore. Tu mi piaci, io ti piaccio, stiamo bene... stiamo assieme.
Poi è successo che come utopie sociali, il comunismo si è suicidato contro un palo, e la religione ha perso molto ma molto terreno.
E' rimasta allora a quei tempi (parliamo degli anni Ottanta) solo l'utopia sociale dell'arricchimento, o del denaro.
Babbo capitalismo ci ha regalato l'utopia migliore, la più adatta l'uomo. Perché tra tutte è l'unica che non può realmente essere compiuta. C'è sempre un uomo più ricco di te. E anche se arrivassi ad essere tu il più ricco del mondo, potresti sfidare te stesso a superarti. E se anche ti venisse a noia la sfida con te stesso, comunque saresti solo uno su sei miliardi a non poter godere dell'utopia del denaro, e che il cielo avesse pietà del tuo inferno.
Ma cos'è successo con il dilagare dell'utopia del denaro? Per farsi più perfetta, l'utopia si è vestita di sogni immateriali. Per raggiungere anche le fasce sociali lontane dallo spettro del consumismo, l'utopia del denaro ha cominciato a parlare di felicità, e di amore. Confondendo carte di credito e mutui in banca con emozioni e slanci, ci siamo convinti che la nostra felicità avesse a che vedere con l'accumulo. E che in qualche modo anche l'amore dipendesse da esso.
Poi, pochi anni fa, anche l'utopia del denaro ha cominciato a scricchiolare insieme al mito del capitalismo. C'è rimasta però, come facciata di scena di Cinecittà, l'utopia dell'amore, senza più la struttura dell'utopia del denaro alle spalle.
Dunque, stracciate o rovinate a terra le altre utopie dominanti, viviamo oggi l'utopia sociale dell'amore (che potremmo chiamare in senso estensivo “della felicità”). Cioè che ci rende vivi e tesi, che non ci lascia impazzire di fronte all'altrimenti evidente caos della vita, è la speranza di vedere realizzato un giorno il nostro amore perfetto e ideale.
Ma a questo punto bisogna esplicitare il corollario necessario che si accompagna a una teoria del genere: un'utopia per funzionare veramente, non deve mai arrivare alla realizzazione piena.
La pena sarebbe, come accennato prima, la fine della tensione, la fine del senso, insopportabile risultato per i più. Ecco perchè, dunque, mentre una parte di noi, la più evidente – diciamo la parte emersa – spinge con tutte le forze affinché il nostro amore cresca e duri in eterno, l'altra parte di noi, quella più fonda e incomprensibile, lavora alacremente per sabotare il nostro progetto di vita a due.
A modo suo, questa parte oscura, ha una sua saggezza. Ci vuol tenere in vita e in forma.
La soluzione?
Non chiedetela a me, che sto più inguaiato di voi. Forse, una strada sarebbe quella di sbarazzarsi dell'utopia dell'amore e godersi la vita reale a pieno.
Ma su questo non garantirebbe neanche Alberoni. Figuriamoci io.


3 commenti:

bu ha detto...

non sono d'accordo manco per il fischio. (iperpolemica mode on)
secondo me i rapporti a scadenza sono (in)giusta funzione della precarietà. il procrastinare perpetuo delle questioni lavorative che un tempo erano una certezza certa, ha atrofizzato le menti, e nemmeno più nei rapporti umani si cerca di costruire certezza e sicurezza (la costruzione di un amore spezza le vene delle mani mescola il sangue col sudore se te ne rimane..)o a dir tanto onestà, e contributi pagati...tentando di tralasciare i discorsi filo-patetici di quelli che ritengono di cercare rapporti cosiddetti "maturi" in quanto liberi da convenzioni, o confini che ben farebbero a noi che ci hanno tirati su in mezzo a sta corrente di vento triestino (per cui ipersensibili e sempre malaticci..), mi ha intrigato molto uno studio giapponese credo fosse in cui veniva analizzato come le cellule del cervello di uomini che mantenevano rapporti saldi e continuativi con una partner in realtà erano la versione evoluta dell'homo sapiens sapiens.
come dire...quelli e quelle che saltano di palo in frasca, che non si fanno domande sui rapporti a lunga durata, nè tentano di lavorarci sù non sono altro che l'espressione del richiamo biologico più becero ed arcaico.
uomini e donne che "ragionano" con vagine e peni, estinguendo a più non posso le ultime sinapsi rimaste.

Cipputi ha detto...

cara isa,

d'accordo sulla seconda parte del tuo commento. Quasi per nulla sulla prima.
La precarietà è una coperta di linus, quando la si usa per giustificare la pigrizia nel condurre una relazione in uno stato di maturità.
Al massimo vale per il discorso di metter su famiglia. Ma anche su questo secondo me ci sarebbe molto da dire... pure durante la guerra la gente si sposava e faceva figli, figuriamoci se avere un contratto a progetto - tranne casi estremi - ti impedisce di fare un figlio o sposarti se lo vuoi veramente.

bu ha detto...

le mie conclusioni sono scaturite da una lenta metabolizzazione successiva d un bell'esame di sociologia della famiglia.
questo lo studio su flessibilità lavorativa legata anche a economicità nei rapporti sentimentali..;)
http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&fbt=1&ISBNART=11402

si, sembra essere un pò la risposta per tutto la precarietà. talvolta è vero però...