giovedì 20 marzo 2008

Sacrificio di Stato


I “Casi Moro” attraverso le letture parallele, convergenti, ridondanti, debordanti degli ultimi trent’anni

Ancora Moro. A trent’anni di distanza il rapimento e la morte di Aldo Moro suscitano reazioni contrastanti di fastidio e attenzione morbosa, di rispetto umano e accanimento storico.
Il punto più critico della Repubblica è stato scandagliato a fondo, riconstruito, sono state costruite storie raccolte in libri, o espresse attraverso immagini reali o fantasiose. Mai però si è riusciti a superare l’opacità che l’avvolge, l’intreccio torbido di fatti, testimonianze, ipotesi, stranezze o semplicemente sospetti che preclude una chiara ricostruzione storica.
Con questo senso di inquitudine e impotenza ci si immerge nella lettura dell’ultimo libro di Giovanni Bianconi sul tema (“Eseguendo la sentenza. Roma, 1978. Dietro le quinte del sequestro Moro, Einaudi, Torino, 2008) che riserva un elemento chiarificatore già prima della prima pagina, in una frase illuminante: «Analizzando il crimine, la società analizza se stessa: di qui la partecipazione straordinaria con la quale operai e intellettuali, abitanti delle città e delle campagne, poveri e ricchi seguono, in Italia, le vicende di un grande “caso”. Tutti cercano di decifrare, nei suoi risvolti, ciò che potrebbe appartenere al loro destino. Perché, come avviene ogni volta che il Paese riane scosso da un grande crimine […], l’Italia giudica se stessa.» (Hans Magnus Enzenberger, Politica e crimine).
Quindi è questo il motivo di un così prolungato interesse? Forse sì. Forse si tratta di un’autoanalisi collettiva dalla quale non possiamo fuggire, se non portandoci addosso il peso del senso di colpa, anche per chi –come chi scrive- ha visto la luce nei giorni successivi all’uccisione del professore-statista.
La pubblicistica sul caso ha preso le direzioni più disparate. Il libro di Bianconi rappresenta un diario ragionato di quei giorni, in cui fatti e testimonianze si intrecciano, focalizzando l’aspetto umano dei protagonisti (la famiglia, i brigatisti, i politici, le forze dell’ordine, il paese), senza proporre ipotesi suggestive. È un punto di vista lineare, forse timido nel suo timore di esporsi con una ricostruzione dei punti oscuri. Sicuramente diverso da quello di Sergio Flamigni che nei suoi libri punta a scovare puntualmente i corto-circuiti della vicenda, le contiguità tra apparati dello stato e della NATO, organizzazioni criminali come la P2, brigatisti enigmatici come Mario Moretti. Non una ricostruzione fantasiosa, complottista, ma il faticoso lavoro di raccolta di documenti ufficiali di un ex parlamentare componente di diverse commissioni d’inchiesta.
Contiguità si diceva. Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione Stragi, sostiene che il fenomeno terrorista si nutrisse di tale contiguità da parte di un’ampia fascia di persone “entusiaste nel nascondere anche solo per una notte un brigatista latitante”. Fenomeno vero oltre che verosimile, in un paese simbolicamente affascinato dall’idea (più che dalla pratica) rivoluzionaria. D’altronde, è l’idea lanciata molti anni fa da Rossana Rossanda, secondo cui i brigatisti (e tutti i terroristi rossi) facessero parte “dell’album di famiglia della sinistra”. Osservazione banale, superficiale, come dire che anche Saragat o Togliatti facevano parte dello stesso album. In relazione al caso Moro non è questo il centro della questione, non è capire la famiglia di provenienza. Bensì capire se, oltre al naturale legame tra i brigatisti e il movimento operaio, ci fosse un disegno o più semplicemente una convenienza a uccidere Moro da parte di una pluralità di soggetti; se queste convenienze si esprimessero in azioni concrete o in omissioni, in negligenze volute; se infine si possano individuare relazioni tra pezzi dello stato, organizzazioni eversive, livelli sovranazionali.
Ma lo scenario è fatto di persone e il racconto delle loro vite è imprescindibile per capire. Anna Laura Braghetti, compenente delle BR a copertura della “prigione del popolo” di via Montalcini, ha raccontato la propria esperienza con semplicità e nessun vittimismo, senza pulsioni autoassolutorie. È doloroso vedere i brigatisti raccontare. Va a finire che pensi che è ingiusto che loro siano in TV a raccontare mentre la gente ancora piange i suoi cari. Ma serve a capire, a comprendere un livello di questo racconto terribile che riguarda la vita, le illusioni e la stupidità di una generazione, il loro sfociare in una violenza fredda e calcolata. Lontana dalla lucidità quasi aliena del presidente democristiano e dalla resistenza del paese di fronte all’entità di quella sfida folle.
Si può raccontare in infiniti modi il caso Moro perché si può raccontare in altrettante varianti il nostro paese e il nostro popolo. Ma con la rassegnazione per una verità che non verrà mai chiaramente alla luce e per un paese incapace di guardarsi onestamente allo specchio.

scritto per alambicco.com

1 commento:

Anonimo ha detto...

In questi giorni, da un paio di anni a questa parte in realtà, la giornata in cui tutti parlano di Moro mi intristisce.
Non è il caso del tuo post ovviamente :-P
Trovo in un certo senso catartico, canticchiarmi, una strofa o due della canzone "io se fossi dio" di Gaber/Luporini nei passaggio in cui (cito a mente) dice:

"E se al mio Dio che ancora si accalora,
gli fa rabbia chi spara,
gli fa anche rabbia il fatto
che un politico qualunque
se gli ha sparato un brigatista,
diventa l'unico statista.
Io se fossi Dio,
quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio,
c'avrei ancora il coraggio di continuare a dire
che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana
è il responsabile maggiore di vent'anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio,
un Dio incosciente enormemente saggio,
avrei anche il coraggio di andare dritto in galera,
ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora
quella faccia che era!"

In Italia, l'unica che ho conosciuto fino a qui, per essere un eroe hai due possibilità:
1) Ti sparano le Br
2) Fai solo il tuo dovere
La seconda, qualche volta, si è rivelata meta più ardua.

Francesco