
I film non sono tutti uguali.
La scorsa settimana sono andato a vedere Irina Palm al cinema. Non era poi così brutto, anzi la storia mi è sembrata originale, ma di tanto in tanto avevo una gran voglia che si rompesse la macchina, per potermi risparmiare il resto.
Domenica invece ho visto “La signorina effe” di Wilma Labate e sono rimasto tremendamente colpito.
Non solo per la bellezza di Valeria Solarino, che pure rappresenterebbe una ragione sufficiente a turbare la mia sensibilità di bradipo-italiano medio, ma perché ha colpito in profondità, in molte delle più stridenti contraddizioni mie e della mia generazione.
Il film è ambientato a Torino nel 1980, durante la vertenza FIAT, l’occupazione delle linee e la marcia dei “colletti bianchi”. Emma (Val.Sol.) è figlia di un ex operaio crumiro meridionale, si sta per laureare, è avviata a far carriera nella FIAT, ha una relazione col suo ingegnere-capo (Silvio, alias Fabrizio Gifuni. È stata designata dalla famiglia (padre-madre-nonna-fratello-sorella) a fare il salto sociale, a dare un senso a tutti gli sforzi fatti, a uscire da quartieri operai degradati. Poi s’innamora di un operaio rebelde (Sergio, alias Filippo Timi) e le cose sembrano cambiare.
Non vi toglierò il gusto di vedere il film -ci mancherebbe!- ma voglio condividere le ragioni del mio turbamento.
Una città, Torino, che ritorna nella mia vita come destinazione futuribile ma mai concreta. Una città di cui ora si assiste alla rinascita ma che mostra ancora evidenti i segni del buio degli ultimi vent’anni, fatto di disoccupazione, di riconversione, di eroina, di torpore depresso o di rabbia depressa, di emarginazione e ghettizzazione degli operai e delle loro famiglie.
Un conflitto devastante tra le ragioni del lavoro e quelle dell’efficienza. Tra la mia vicinanza familiare e politica all’esperienza umana degli operai, alla loro sofferenza e fatica e la consapevolezza che l’efficienza è un fattore imprescindibile di crescita, anche per i lavoratori.
Il mito della contestazione anni ’70 che da qualche anno continua a naufragare nella realtà dirompente delle sue ombre, della sua violenza, mentre da adolescente vedevo come l’occasione bellissima perduta.
La contraddizione tutta personale tra l’essere figlio di un operaio-contadino meridionale e l’essere (inutile negarlo) attualmente un “colletto bianco”.
Infine, la contraddizione che vive Emma tra un amore liscio, tranquillo, affidabile e un po’ opportunista e l’amore idealista, ruvido, affascinante e inaffidabile.
All’uscita dal cinema avevo voglia di parlare ma faceva troppo freddo.
La scorsa settimana sono andato a vedere Irina Palm al cinema. Non era poi così brutto, anzi la storia mi è sembrata originale, ma di tanto in tanto avevo una gran voglia che si rompesse la macchina, per potermi risparmiare il resto.
Domenica invece ho visto “La signorina effe” di Wilma Labate e sono rimasto tremendamente colpito.
Non solo per la bellezza di Valeria Solarino, che pure rappresenterebbe una ragione sufficiente a turbare la mia sensibilità di bradipo-italiano medio, ma perché ha colpito in profondità, in molte delle più stridenti contraddizioni mie e della mia generazione.
Il film è ambientato a Torino nel 1980, durante la vertenza FIAT, l’occupazione delle linee e la marcia dei “colletti bianchi”. Emma (Val.Sol.) è figlia di un ex operaio crumiro meridionale, si sta per laureare, è avviata a far carriera nella FIAT, ha una relazione col suo ingegnere-capo (Silvio, alias Fabrizio Gifuni. È stata designata dalla famiglia (padre-madre-nonna-fratello-sorella) a fare il salto sociale, a dare un senso a tutti gli sforzi fatti, a uscire da quartieri operai degradati. Poi s’innamora di un operaio rebelde (Sergio, alias Filippo Timi) e le cose sembrano cambiare.
Non vi toglierò il gusto di vedere il film -ci mancherebbe!- ma voglio condividere le ragioni del mio turbamento.
Una città, Torino, che ritorna nella mia vita come destinazione futuribile ma mai concreta. Una città di cui ora si assiste alla rinascita ma che mostra ancora evidenti i segni del buio degli ultimi vent’anni, fatto di disoccupazione, di riconversione, di eroina, di torpore depresso o di rabbia depressa, di emarginazione e ghettizzazione degli operai e delle loro famiglie.
Un conflitto devastante tra le ragioni del lavoro e quelle dell’efficienza. Tra la mia vicinanza familiare e politica all’esperienza umana degli operai, alla loro sofferenza e fatica e la consapevolezza che l’efficienza è un fattore imprescindibile di crescita, anche per i lavoratori.
Il mito della contestazione anni ’70 che da qualche anno continua a naufragare nella realtà dirompente delle sue ombre, della sua violenza, mentre da adolescente vedevo come l’occasione bellissima perduta.
La contraddizione tutta personale tra l’essere figlio di un operaio-contadino meridionale e l’essere (inutile negarlo) attualmente un “colletto bianco”.
Infine, la contraddizione che vive Emma tra un amore liscio, tranquillo, affidabile e un po’ opportunista e l’amore idealista, ruvido, affascinante e inaffidabile.
All’uscita dal cinema avevo voglia di parlare ma faceva troppo freddo.